Il convegno “Le parole non bastano” è stato, io credo, un evento di un peso e un’importanza che forse nemmeno ancora riesco completamente a immaginare, e che certamente si farà sentire, spero con effetti immediati e molto concreti. E non semplicemente perché è stato voluto e organizzato insieme da donne e uomini – certo anche, e non è una cosa da poco – ma soprattutto per le energie, le idee e in primo luogo l’esempio concreto di un nuovo tipo di relazione possibile tra uomini e donne. Perché se è vero che è con la relazione tra donne che si esce dalla violenza, come ha detto Marisa Guarneri, una relazione che è in primo luogo una “accoglienza come legame d’amore”, è anche vero che tanti e tante hanno affermato e messo allo stesso tempo in pratica, in due giorni di dibattito davvero appassionante, una relazione nuova, diversa, tra uomini e donne che è l’unica via possibile e praticabile per tentare di sradicare la violenza maschile contro le donne al suo punto di origine. E’ stato infatti ribadito da più parti, e a me pare che non lo si sottolinei mai abbastanza, che non è con la repressione – che, per carità, ci vuole ed è irrinunciabile – ma soprattutto con la prevenzione che occorre affrontare la violenza di genere. E, altra distinzione centrale, non è con interventi istituzionali ma con una collaborazione trasversale e a partire dal basso, dalla comunità, che possiamo sperare di venirne a capo.
Di un convegno che, giustamente, sottolineava il limite delle parole – in modo sottile, naturalmente, perché dialetticamente il potere della parola era continuamente evocato e agito – mi rimane una costellazione di termini e idee che non a caso continuavano a riemergere: emozioni, sentimenti amore, desiderio, relazione. La teoria di quello che è stato detto la conosciamo: è il racconto della difficoltà a fare emergere, a “dire” la violenza per poterla affrontare, curare, sanare, in chi la subisce, in primo luogo, ma non solo. La novità è che si è parlato, e con forza, della necessità di dire e dunque affrontare la violenza là dove nasce, e cioè in un immaginario condiviso sul quale dobbiamo lavorare, a partire, come luogo imprescindibile, dall’educazione, ma muovendoci anche in altri ambiti. Quello che è successo (sottolineo successo, e non semplicemente che è stato detto) è che è stato evocato e insieme praticato il tema del desiderio, dell’amore, della felicità. Era palpabile nella forma, sempre dialogica, di un confronto tra uomini e donne, in cui si sono articolati gli interventi. Ma non solo: era proprio la linfa che si sentiva scorrere, era nel pubblico, nelle pause, a pranzo. Una curiosità reciproca, un ascoltarsi attento e insieme entusiasta, dell’entusiasmo di una continua scoperta. So bene che si stanno tentando esperimenti di dialogo in più luoghi, in spazi più o meno virtuali, ma questo è stato, a mio parere, qualcosa di molto speciale. Forse perché il “partire da sé” è stato un collante fondamentale, al punto che, direi, nella costellazione delle idee e delle parole che circolavano e dominavano i discorsi, è stato l’idea più forte, la più sottolineata come l’ingrediente fondamentale di ogni risposta possibile praticabile alla violenza. Ne è nata una presentazione di esperienze che ha fatto nascere, a sua volta, nuove idee e proposte. Legate da un filo: la risposta non sta nelle istituzioni e non sta nella repressione. La risposta possibile è nella comunità, nell’attivare le sue risorse, nel cambiamento dell’immaginario, nel portare più persone a riconoscere la violenza e a rivolgersi ai centri antiviolenza. Il ruolo delle istituzioni non è ovviamente privo di importanza, ma è un ruolo che deve prendere le mosse e la direzione a partire dall’ascolto di chi contro la violenza lavora ogni giorno.Sarebbe importante dare uno spazio a ciascuna delle voci che hanno declinato la relazione e le soluzioni in un intreccio di sfaccettature che dialogavano e si richiamavano. Per oggi deve bastare una parola: educazione. Lo ha detto l'assessore alle politiche sociali, lo ha detto un'antropologa che ha raccolto le voci delle donne che troppo spesso non trovano negli ospedali persone pronte a facilitare il racconto della verità (anche se, va detto, molte volte, per fortuna, le trovano), lo ha detto un magistrato, che ha spiegato che troppi magistrati, la polizia, gli avvocati (donne e uomini, va detto) sottopongono le donne a una ulteriore violenza, spesso scoraggiandole dal denunciare. La violenza per essere combattuta e fermata va in primo luogo riconosciuta e, ancor più fondamentale, detta. Le parole non bastano ma sono il primo strumento che abbiamo, possono essere molto potenti, possono servire a formulare la domanda giusta, alla quale deve seguire un ascolto educato a sentire e accogliere. E agire.