Queste sono le ultime parole del "discorso al Giappone" tenuto da Yukio Mishima prima di morire, di fronte a qualche migliaia, fra soldati di fanteria e giornalisti di radio e televisione, dal balcone dell'ufficio del Ministero della Difesa. Lo scrittore giapponese ha occupato l'ufficio del generale Mashita con quattro dei suoi compagni più fidati e si appresta a compiere l'estrema rimostranza contro l'occidentalizzazione del Giappone (nello specifico, Mishima si scaglia contro il Trattato di San Francisco). I suoi adepti fanno tutti parte del Tate no Kai ( Società degli scudi) e fra di loro c'è un nervosissimo Masakatsu Morita. Il 25 novembre, nell'immaginario di Yukio, è un addio già scritto e da tempo deciso. La data, oltre che in alcune lettere agli amici più cari, compare sull'ultimo foglio del suo ultimo romanzo, già concluso in marzo, consegnato al suo editore il giorno precedente come una sorta di testamento letterario. Per la sua dipartita, Mishima sceglie l'unica morte consona ad un poeta-samurai: il seppuku. Rito suicida tradizionale Giapponese, figlio originario della spada e del sangue di Minamoto no Yorimasa, che nel 1180, dopo aver perso la battaglia di Uji, si trafigge con la propria katana per non cadere nella prigionia e nella vergogna, il seppuku diventa per tradizione la "morte onorevole" che il guerriero si concede per mantenere la sua anima libera dalla vergogna. Il suicida pratica infatti un profondo e grave taglio ( hara) all'altezza del ventre ( kiri), luogo dove, secondo la cultura nipponica, risiede l'anima che, grazie al taglio praticato, può volare via pura e incontaminata da dolore e vergogna. La cultura, gli usi, i costumi e le tradizioni del Giappone consistono nel nucleo pulsante dell'arte di Mishima; la loro preservazione e gloria diventano per Yukio un ideale (a)politico, perseguito con tenacia lungo tutta la sua giovane e vigorosa esistenza.
Yukio Mishima, nel giorno della sua morte, è uno scrittore, drammaturgo e poeta giapponese di fama internazionale che conta solo quarantacinque inverni. La pubblicazione di Kamen no Kokuhaku (Confessioni di una maschera) nel 1949 gli aveva spalancato i cancelli della gloria e della fama in ambito letterario: da allora il nome di Yukio Mishima diventa il simbolo di un Giappone che al contrario del significato del proprio nome (Nippon) sta tramontando e si sta globalizzando sempre di più. Yukio è per molti anni icona di un patriottismo romantico ormai passato e nostalgico, di cui possono essere testimoni Foscolo, D'Annunzio e forse Panagulis. Visto come un nazionalista dagli intellettuali di sinistra e come un anarchico dai pensatori di destra, vive la sua lotta ideologica in estrema solitudine, senza bandiere, slogan o partiti, ma dando spazio alle tradizioni più antiche del Giappone nelle sue opere letterarie e di teatro (i cinque No moderni ne sono un ottimo esempio).
Come in vita, così in morte. Il suo estremo gesto suicida diventa così un ultimo pretesto per omaggiare la cultura nipponica e la figura dell'imperatore, non nella sua accezione politica bensì per il ruolo simbolico che ricopre all'interno della cultura del Giappone. Qualcosa però va storto e il kaishakunin (il nervoso Morita), colui che è responsabile di decapitare il suicida nel momento del seppuku, affinché il volto non gli sia macchiato da smorfie di agonia, sbaglia il colpo di grazia per ben due volte. Deve intervenire Hiroyasu Koga per porre fine al rito, guadagnandosi così il titolo di più recente kaishakunin della storia giapponese. Morita, che secondo alcuni critici e biografi, era l'amante omosessuale di Yukio non sopporta l'errore commesso e, travolto dall'onda di vergogna, si trafigge anch'egli. I restanti tre si consegnano alle forze dell'ordine e vengono condannati a quattro anni di prigionia per aver occupato illegalmente il ministero.
Il corpo di Yukio giace glorioso in avanti, come vuole la tradizione, e vicino a lui fa capolino il suo biglietto d'addio che recita: