2501 non è un entità fisica
2501 è lo spirito nel guscio
2501 interpreta l’ambiente circostante
2501 si trasforma nel tempo senza limiti stilistici o di media
2501 si nutre dell’ambiente circostante proponendo nuove e sommerse chiavi di lettura
2501 sa che per vedere l’alba non c è altra strada che la notte
2501 non può seguire nessun percorso pretracciato
2501 non crede nell’ambiente artistico tradizionale e nella sua organizzazione in caste
2501 è espressione di interscambio tra artisti
2501 sceglie l’ambiente urbano come luogo privilegiato di interscambio artistico
2501 sceglie l’ambiente urbano come luogo per esporsi
2501 sa che il più grande lusso è disporre del proprio tempo senza limitazioni
2501 pensa che chi è padrone del proprio tempo, e quindi privilegiato, si debba battere per chi non lo è
2501 pensa che l’arte debba dare una visione critica sulla società in una maniera non didascalica ma ludica
2501 pensa che poter fare arte nella vita è un lusso
Alcuni dei tuoi lavori rimandano alla filosofia Buddhista, nel testo d’artista che accompagnava la tua ultima personale a Milano scrivi che dipingere è antidoto, è continuità e pratica meditativa.
Dipingere è antidoto nella maniera più banale del termine, perchè è una pratica, un modo di esprimersi con il corpo e con la mente, un rituale ripetuto. E questa ripetizione conduce alla continuità, che è poi quella del percorso che sto seguendo ininterrottamente da oltre quindici anni.
Il dipingere si trasforma in pratica meditativa, nel momento in cui l’attività pittorica crea uno spazio interiore di raccoglimento in cui nascono idee e suggestioni.
Questo tipo di impostazione deriva dai rituali e dalle pratiche della filosofia buddista, che studio da sempre e che mi ha reso cosciente della profondità della pittura sacra orientale, in particolare Tibetana. A questa base filosofica poi si sono aggiunte motivazioni personali e una ricerca artistica condotta in modo indipendente: io non ho fatto studi artistici, l’evoluzione è arrivata sempre passo dopo passo da autodidatta. Il risultato è una reinterpretazione tutta personale di questa tradizione religiosa, che si declina in ambito visuale tramite immagini cariche di suggestioni e dense di simboli da decifrare.
Fine artist e street artist. Grandi muri in strada e lavori radicalmente diversi in studio. Puoi parlare delle due anime di 2501?
Fino al 2007 non ho mai dipinto un quadro, ho cominciato con i graffiti da adolescente, facevo treni e lavoravo sui muri con gli spray. Non mi è mai interessato replicare in studio quello che facevo in strada, così quando ho cominciato a lavorare indoor mi sono dovuto confrontare con le tecniche tradizionali come l’olio o l’acrilico: per me erano un limite, non mi davano quell’immediatezza e quella spontaneità che ritrovavo in strada con lo spray. La soluzione è venuta da sè, quando ho scoperto i colori a base alcolica, trattati con alcool etilico e tirati con pennello o aria compressa su varie superfici plastiche. Questo mi ha permesso di trasferire il gesto del dipingere in strada nel lavoro in studio, ricollocandolo in un contesto molto più intimista. La costante, resta la tensione, il movimento, quegli stessi elementi che caratterizzano la divinità rappresentata in mostra, Vajrapani.
Nel tuo manifesto presente sul tuo sito web www.2501.org.uk si legge che 2501 sceglie il contesto urbano come spazio privilegiato per scambiare idee, puoi commentare questa dichiarazione poetica?
Lavorare in uno spazio pubblico ti offre la libertà e un grande margine di improvvisazione, che viene stimolato dagli spunti offerti dall’ambiente, rendendo l’arte viva e vibrante. Credo che qualsiasi processo artistico che funziona debba far nascere nel pubblico la necessità di uno scambio, di un confronto personale con l’opera, che sia stimolo, arricchimento e riflessione.
Oltre ad aver studiato alla Bauhaus di Weimar e vissuto in Germania, ci sono due città chiave per la tua ricerca artistica. Milano, la tua città natale e San Paolo del Brasile, dove hai vissuto per alcuni anni. Cosa ti ha dato l’una, cosa ti ha dato l’altra?
San Paolo è un pò la Milano del Brasile, ma è una megalopoli rispetto a Milano che è una città piccola e provinciale dell’Europa. Dipingendo con gli street artists in Brasile mi sono reso conto dell’estrema libertà che si respira lì, un mix di sperimentazione, giocosità ed espressività, a cui si aggiunge la volontà di non fermarsi alle cose assodate. Milano invece è la memoria, la mia personale e quella artistica, una tradizione di storia dell’arte più che centenaria, che è base a cui attingere, ma anche eredità che spesso rallenta.
Queste profonde differenze ritornano anche nella mia pittura: quando lavoro in Brasile ottengo dei risultati radicalmente differenti da quelli che avrei se facessi le stesse cose a Milano, sia per attitudine, che per scelte cromatiche e espressive.
Puoi parlare dell’aspetto installativo della tua ricerca artistica e dell’interesse per la componente visual?
Dopo essermi diplomato come montatore alla Scuola Civica di Cinema di Milano, ho avuto la fortuna di finire in Box Studio e Sun wu-kung Collective, che si occupavano di video, grafica, motion graphics ed era un progetto di cui facevan parte artisti come Tatiana, GGT, Riccardo Arena, Nunzio Cicero, a cui si aggiungono Bo130, Microbo e Claudio Sinatti. Lavorare a contatto con loro è stato decisivo per plasmare la mia attitudine all’arte e al medium video. Oltre a questo, fin da piccolo ho sempre costruito oggetti, poi la prima vera installazione è nata grazie alla collaborazione con il mio gallerista brasiliano Billy Casthillo. Da quel momento in poi, alla pittura ho sempre affiancato la passione per le installazioni e il video, che mi hanno portato a New York, dove nel 2009 ho vinto lo Street Art Award per il Babel Gum’s Metropolis Art Prize con il video della performance Mask, proiettato a Times Square.
Serena Valietti