28 Novembre 1969: gli anni ’60 stanno finendo e a salutarli resta uno scenario tutt’altro che piacevole. Gli omicidi di Robert Kennedy e Martin Luther King, avvenuti l’anno precedente, furono presagio di un disastro imminente. Con la strage di Bel Air ad opera di Charles Manson e dei suoi adepti e con il disastroso concerto di Altamont, il periodo del Flower Power sembrava volgere al termine. La guerra in Vietnam, intanto, proseguiva senza risparmiare vittime e le conseguenti proteste nel mondo infuocavano le strade e i notiziari. La scia di morte del ’69 non risparmiò nemmeno la famiglia degli Stones: il 3 luglio, infatti, Brian Jones viene ritrovato morto nella sua piscina, affogato in seguito ad un eccesso di droghe. Tutte le inquietudini di questo periodo tormentato, il sangue e il dolore, la paura e il desiderio, la passione e la distruzione, la violenza e l’amore, confluiscono nelle note di Let It Bleed, nelle sue sonorità oscure e brillanti in bilico tra il british sound e quello americano, tra il Blues e il Country.
Nonostante la perdita di un membro cruciale, i Rolling Stones proseguirono il loro cammino con Mick Taylor e qualche mese dopo pubblicano il loro tredicesimo album, il secondo della serie dei quattro capolavori storici consecutivi della band, quali Beggars Banquet (1968), Let It Bleed (1969), Sticky Fingers (1971), e Exile on Main St. (1972), considerati dalla critica il vertice massimo dell’intera produzione degli Stones. Il disco è un forte ritorno al blues (come lo era stato anche il precedente Beggars Banquet), in particolare alla fonte del genere stesso come testimoniato dalla cover di Love in Vain di Robert Johnson, che la band fece propria aggiungendovi alcuni accordi supplementari e riarrangiandola in chiave country. Proprio la country music è la seconda influenza predominante dell’album, insieme al rock, naturalmente. Let it Bleed segna anche l’esordio di Keith Richards come voce solista in You Got The Silver, ballad romantica dedicata ad Anita Pallenberg.
Al di là della caratteristica fusione tra il rock britannico e la musica popolare americana, la vera peculiarità di Let it Bleed sono i testi: basti pensare a Gimme Shelter, che tratta temi scottanti come guerra, omicidio e stupro, o ancora la title track Let it Bleed, le cui liriche sono una totale allusione al sesso e agli eccessi di droga. Ultima, ma non per importanza, You Can’t Always Get What You Want, uno dei brani più epici mai composti dai Rolling Stones: introdotto da un coro di voci angeliche, Mick Jagger canta di delusione e rimpianto sullo sfondo di una chitarra acustica, alla quale si unisce una malinconica nota di corno francese. La tematica della canzone è stata indicata come una metafora delle continue delusioni provocate dagli anni sessanta, ma anche come un monito pseudo-moralista verso l’abuso di droga.
Il disco è un successo fin da subito, tanto da debuttare in vetta delle classifiche inglesi, spodestando Abbey Road dei Beatles, la cui carriera si concluse poco dopo.
Le ragioni di questo successo si possono attribuire non solo alla musica, bensì al fortissimo potere evocativo che ogni testo ha avuto sull’immaginario dell’ascoltatore: un album sentito non solo per la sua bellezza, ma anche per la sua proverbiale poesia metropolitana. Grazie ad essa, I Rolling Stones si fecero strada nel cuore di tutti coloro che vissero in prima persona il declino e il disagio dell’epoca, racchiudendo nella loro musica il mondo e tutti i suoi orrori.
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