Magazine Horror
Una semplice questione di vendettadi Simone BresciaCreatura: Fenrir
C’è una cosa che non dicono mai sull’essere un piedipiatti: a un certo punto viene voglia di farsi giustizia da soli. Ne ho viste di cose nei miei anni di servizio: figli di puttana che, dopo aver scannato e seviziato qualche povera ragazza, escono fuori grazie alle conoscenze del loro babbo; signori della droga che non possono essere toccati perché tengono per le palle un qualche politico; o ancora, mafiosi che riescono a scamparla grazie alla mancanza di prove. Il confine fra giusto e sbagliato è una linea molto sottile, alla prima incrinatura si finisce sotto, proprio come se si pattinasse su del ghiaccio da quattro soldi. Ma a farmi affondare in quell’abisso e a farmi gettare alle ortiche il mio distintivo non fu questa gentaglia, ma un uomo molto, molto speciale. I giornali lo chiamavano “il fantasma bianco di Loki”. Nome pomposo per definire un assassino che aveva ammazzato centinaia di persone in omicidi rituali. Il mio figlio di puttana preferito. Lo seguivo da mesi. Da Milano a New York, dal Giappone fino a Instanbul, ora la mia pista mi aveva condotto in Brasile, nella bella e luminosa San Paolo. Ed effettivamente, al mio arrivo nella città, quest’ultima brillava, specialmente nelle favelas: stavano andando a fuoco. Lui è già qui. Controllai che il mio Colt Python fosse al suo posto: tutto regolare. Pagare le mazzette ai cattivi aveva i propri vantaggi dopotutto. Scesi dal taxi senza troppi complimenti, ignorando le richieste del tassista nel suo inglese fortemente accentato riguardo al fatto che le favelas erano pericolose e in fiamme. Coraggio Max, cominciamo questo ballo – mi dissi. Potevo sentire il suo odore aleggiare su quel luogo, misto alla cenere e alla carne bruciata. Davanti a me si stendeva un’immensa baraccopoli in fiamme che pareva essere stata presa di peso da un quadro rinascimentale sull’inferno. Ecco qualcosa che non aiuterà i depliant turistici. La catena nera intorno al mio braccio cominciò a fremere, soffiando come un gatto davanti a un cane. Magia dunque, bingo. Entrai dentro all’inferno in terra, revolver bene in vista nella mano destra e arma divina pronta a scattare nella mano sinistra. Intorno a me c’era un marasma di urla, pianti e fuoco, tanto, troppo, fuoco. Fottuto incendio, l’aria qui è così rovente che posso quasi sentire i miei polmoni gridare aiuto. Se resisto è tutto merito di questa –pensai guardando la catena. Avanzai per duecento metri lungo le macerie, fin quando non vidi una scena degna di un film horror: una suora correva freneticamente, quasi comica nel suo modo di sollevarsi la tonaca, mentre, alle sue spalle, un essere che di umano aveva solo le fattezze, la inseguiva veloce come un cazzo di segugio dietro alla preda. Gli occhi dell’inseguitore erano completamente bianchi e quello che rimaneva della camicia completamente sporco di sangue e viscere; al posto delle dita facevano la loro comparsa dei teneri artigli affilati come rasoi. Un altro di quei fenomeni da circo! Non provare a mancare il bersaglio Max, non ora. Colpo in canna, cane armato, linea di tiro: dritto sulla fronte. Bang. Rinculo. Ora, sulla fronte del mostro, c’era un bellissimo foro color porpora. <<Oh meu Deus, oh meu Deus…>> continuava a ripetere la religiosa, una tiritera continua e snervante. Ma quando diavolo la smette? Non ho tempo da perdere. Senza molta delicatezza la presi per la collottola e la scrollai forte. Funzionò; la suora tornò alla realtà. <<What had happen here?>> chiesi nel mio inglese stentato. La consorella mi guardò come se stessi parlando aramaico. Maledetto Brasile. <<O que aconteceu?>> riprovai. La donna liberandosi dalla stretta incominciò un curioso balletto, che immaginai fosse un modo per dire che era apparsa una grande luce e che le persone erano iniziate a diventare “mostri”. Solito modus operandi eh, Loki? Te la farò pagare, lurido albino dei miei stivali. <<Luz, onde?>> chiesi io. Lei mi indicò una direzione che andava nella zona dove le fiamme avevano fatto piazza pulita delle baracche. In compenso era pieno di quei mostriciattoli cannibali. La mia solita fortuna. Senza dire una parola mi incamminai verso quell’allegra combriccola, mentre lei scappava urlando <<Oh meu Deus!>>. Che originalità questi brasiliani. Mi circondarono come un gruppo di lupi affamati. Mi concessi un sorriso di puro, estatico, piacere. <<Avete fame no? Fatevi avanti, metà di voi la trasformo subito in concime>> li sfidai. Saettarono verso di me come vespe impazzite. Bang. La testa di uno si apri come un cocomero spaccato a metà. Sparai altri due colpi: si spappolarono rispettivamente una mano e un bulbo oculare. Quarto colpo, linea di tiro direttamente sulla gola. Il proiettile aprì un solco rosso sul collo del nemico. Bang. L’ultimo colpo mancò il bersaglio, che ormai era a due passi da me. Proiettili finiti. Game over? La catena tranciò in due il posseduto come se fosse stato fatto di carta. No, credo proprio di no. Agitai l’arma come se fosse stata una frusta, staccando mascelle, aprendo in due stomaci e staccando teste. Alla fine, in terra, c’erano venti cadaveri. Sentii un pianto alla mia destra e l’odore della paura. Una bimba che avrà avuto sì e no mi guardava, avvolta dall’abbraccio della madre, terrorizzata << Ele matou meu pai!>>. Non ci voleva un genio per capire che diceva che avevo ammazzato suo padre. Tuo padre era già morto, mocciosa. Ma questo la piccola non poteva saperlo. Continuò a singhiozzare finché non sgusciò fuori dalla stretta della madre, venendo verso di me. La catena mandò una pulsazione nera che mi risalì per tutto il colpo. Debole, bambina. Sacrificio, uccidere, dilaniare, odio. Odio. ODIO! Ignorai la voce nella mia testa, cercando di contenere il potere di quella maledetta catena. Non servì. Un posseduto apparve dal nulla, aprendo in due la piccina come se fosse stata un pezzo d’arrosto davanti a un morto di fame. Poi, non contento, l’assassino scattò verso la madre, che morì gridando come una dannata, un pezzo di collo staccato a morsi dal mostro. La furia mi avvolse come un’armatura, facendo estendere la catena su di me con uno stridio; la sentii avvolgermi braccia e gambe, la sentii farmi muovere come un burattino in preda a una rabbia animalesca. Quando rinvenni vidi davanti a me il cadavere del posseduto, orribilmente mutilato e sfregiato: l’avevo fatto a pezzi. Niente di personale, mostriciattolo, è una semplice questione di vendetta… Io che arrancavo come un disperato sulle scale, cercando di ignorare la porta di legno del mio appartamento, completamente maciullata. Posso ancora farcela – continuavo a ripetermi –posso ancora farcela. Ma forse, una parte di me, sapeva già cosa mi sarei trovato davanti. Pregai Dio quel giorno. Non servì a nulla. Dentro, fra i muri affrescati dal sangue dei miei cari, imparai che il Dio in croce per me non poteva fare nulla. Assolutamente nulla. Tutto ciò che amavo era morto. La catena che tenevo fra le mani, indizio rubato da una delle tante scene del crimine, cominciò a gemere fra le mie mani, a dilatarsi su sé stessa fino a divenire un enorme lupo. <<Vedo la tua disperazione anima mortale. Io son Fenrir, il lupo che squarcerà i cieli e che porterà il Ragnarok, la fine di tutti gli dei. Spezza queste catene offrendomi la tua anima e il tuo corpo e io, in cambio, ti offrirò la vendetta che desideri. E il potere di cui necessiti>> <<Accetto>> La vendetta è strana, ci si oppone, si cerca di reprimerla. Ma quando la si accetta ogni cosa appare per quello che è: irrilevante. C’era pace in me mentre la catena si avvinghiava al mio braccio e mi trafiggeva con degli spuntoni acuminati. C’era speranza mentre sentivo il potere gelido come un vento glaciale invadermi le vene e cambiare il mio corpo, facendo scorrere in me il lupo, la bestia. C’era odio, una sana e sacra disperazione, a sorreggermi. Quando rinvenni dai ricordi lui era davanti a me. L’assassino della mia famiglia mi guardava con un ghigno animale stampato sul volto, compiaciuto. Ora te la tolgo io la voglia di sorridere pezzo di merda. <<Fenrir –invocai- spezza la catena e liberati>>. Il metallo nero cadde a terra con un tintinnio. E Fenrir, il lupo destinato a portare il Ragnarok, tornò su questo mondo con un ringhio di gioia.
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