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3 Days to Kill con Kevin Costner: la recensione

Creato il 17 maggio 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

3-days-to-kill3 Days to Kill: Kevin Costner è Ethan Renner e Ethan Renner è Kevin Costner. Tra attore e personaggio c’è perfetta identità. Entrambi sono alla soglia dei sessant’anni e hanno capito che ormai la gamma di personaggi interpretabili inizia drasticamente a ridursi. A dir la verità Costner lo aveva già capito nel 2003, ai tempi di quel meraviglioso e crepuscolare western intitolato Terra di confine (Open Range). A differenza di altri suoi colleghi (si pensi a Stallone che vuole continuare a sentirsi giovane e nerboruto nella saga dei Mercenari o in quella di John Rambo), Costner ha compreso che non si possono nascondere le rughe, i segni del tempo e della vecchiaia. Anzi, sembra volerli mostrare senza un filo di trucco di copertura.

Con 3 Days to Kill Luc Besson e Adi Hasak gli scrivono addosso un personaggio che gli calza a pennello (l’agente CIA anzianotto) e Costner ci sguazza. Entra in scena tossicchiando di continuo, malaticcio, come se subito ci volesse dire: “Ragazzi, non ho più l’età per fare ‘ste cose!”. E già questo non è da tutti (i divi di Hollywood). Per il suo personaggio, inoltre, accetta un tocco di tenerezza che su altri sarebbe risultato patetico: dopo anni dedicati unicamente al lavoro, decide di rimboccarsi le maniche per riconquistare  l’affetto della figlia e l’amore della moglie. Insomma, roba sdolcinata che rischia di diventare puro caramello se dosata maldestramente. Invece il risultato è ben equilibrato e a tratti ci ricorda quel “pezzo di carne maciullata” di The Wrestler di Darren Aronofsky.

Costner sposa quindi coscientemente un personaggio che, allo stesso tempo, ha la virilità di 007 e la decadenza di un malato terminale. A dar leggerezza e bizzarria al tutto ci pensa Luc Besson, che “drammaturgicamente”, con il solito estro tra il pop e il visionario, si gioca la carta di una miracolosa cura sperimentale, un elisir di lunga vita per far sopravvivere, ancora per un po’, quel prototipo di personaggio in quel fenotipo di attore.

Costner si mostra quindi in versione “umana” e mondana: è il romanticone a Parigi con occhialini da sole alla Rio Mare, ma anche il picchiaduro che sa ancora il fatto suo. Non a caso, nel finale, è in giacca e cravatta come ai tempi di Bodyguard (correva l’anno 1992).

3 Days to Kill, quindi, non è solamente un buonissimo action con melassato contorno familiare, ma anche un’interessante analisi di un attore che negli anni ha deciso di auto-mitizzarsi non come divo ma come uomo.

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