Un angolo di cielo può essere rotondo?
Questa frase leggo sulla confezione dei biscotti della colazione mentre, con mente vaga, mi appresto a sorseggiare il mio caffè mattutino, e immediatamente i miei impulsi cerebrali instaurano un collegamento neuronale con questa canzone.
Una canzone che ad ascoltarla bene ti stringe il cuore.
Ho provato una volta a canticchiarla alla pupa, ma arrivata a un certo punto mi moriva la voce in gola. Questo retaggio mi ha lasciato la tempesta ormonale della gravidanza: che io, notoriamente facile alla commozione quanto un ciocco di legno massello, ora presento una curiosa empatia patologica per certi brani musicali.
Volevo ricordarlo, oggi, Alfredino, il bimbo nel pozzo, oggi che son passati 30 anni dalla sua morte in quel buco profondissimo, da cui nessuno è riuscito più ad estrarlo.
Un vicenda che, chissà come, è riuscita a segnare profondamente tutti gli animi, a scuotere in profondità la coscienza nazionale.
E non perché sia facile fare leva sulla naturale inclinazione alla commozione che può suscitare in noi la tragica storia di un bimbo di appena sei anni, destinato a finire in modo tanto assurdo, quanto per la modalità in cui all'epoca i media si occuparono della vicenda. Con quanta partecipazione, oh con quanta dedizione!
Curioso il fatto che proprio in quei giorni il nostro Paese si trovasse impelagato in uno dei suoi più clamorosi scandali nazionali. Curioso che l'agonia di questo bimbo venisse trasmessa in diretta a reti unificate, non lasciando spazio ad altre notizie. Dopo tutto era estate, e in estate si sa che i telegiornali annaspano per trovare scoop degni di interesse. Curioso oppure vergognoso?
Chissà. Credo che la storia di Alfredino sia satura di polemiche, ché non è il caso che ne riapra io, oggi, a distanza di trent'anni da quel tragico evento.
Ma non posso che constatare quanto poco sia cambiata, in trent'anni, la consuetudine di fare delle giovani vittime del fato crudele, o dell'insensata ferocia umana, anche le vittime sacrificali di un audience che si nutre vorace del sangue delle giovani vite spezzate, di un tipo di giornalismo che ci indugia su, ricamando e scavando nella melma dell'insondabile depravazione umana, assecondando la morbosa curiosità di un pubblico avido di scenari macabri, pur ufficialmente condannandolo.
Penso anche a quella vicenda come a un emblema dei nostri limiti.
Limiti che non crediamo più di avere, agevolati come siamo in tutte le faccende ordinarie della nostra vita quotidiana dai progressi continui e inarrestabile di una tecnologia al servizio del nostro comfort (o solo del nostro potere d'acquisto?).
Eppure in tre giorni, nessuno riuscì a tirare fuori Alfredino vivo dal fondo di quel pozzo.
Mi sconvolse la storia, quando la seppi, all'età di sei anni, anche io come lui, sei anni dopo.
Ero in macchina con mio padre.
- Ma quanto è profondo un pozzo?
Gli chiesi, perché continuavo a pensare al suo divieto, imposto a me e a mio fratello, di giocare sulle assi di legno nel pozzo del "castello", l'edificio storico che ospitava gli uffici e i magazzini della sua cooperativa.
- Ma che, se ci cadi dentro muori?
Chiedevo.
- E' profondo. Il problema non è tanto se muori cadendo, quanto riuscire a tirarti fuori dopo.
Sollevata da quella risposta, ricordo che insistetti. Non mi davo per vinta che una squadra ben attrezzata di uomini dotati di gru e chissà che altri macchinari non potessero eventualmente salvarmi dal fondo di un pozzo.
Fu allora che lui menzionò, e per la prima volta in vita mia conobbi, la storia di Alfredo.
Ne rimasi molto impressionata.
Perché fino ad allora avevo creduto che "i grandi" sarebbero sempre stati in grado di "tirarmi fuori" dalle situazioni difficili o pericolose.
Oggi voglio ricordare Alfredino Rampi con questa canzone, e pensare anche a quanti bambini sono costretti sul fondo di pozzi da cui nessuno li tirerà mai fuori, anche se forse sarebbe possibile farlo, se il nostro mondo funzionasse secondo parametri un po' più logici, e umani.
Sono pozzi fatti di miseria, violenza, fame, malattia, indifferenza, guerra, sfruttamento, solitudine.
Ma come si fa ad aiutarli tutti! Non abbiamo gli strumenti adatti!
Siamo proprio sicuri?
Possibile che ancora continuiamo ad assistere impotenti a milioni di agonie in diretta?
E chissà quali pensieri si aggirano nella testa di tutti quei bambini, di fronte ad una sofferenza di cui certo non sono in grado di spiegarsi la ragione, se una ragione v'è.
Scusatemi, se le mie parole suonano retoriche.
foto:flickr






