Grande partecipazione all’Evento Speciale organizzato al Teatro Sperimentale di Pesaro a conclusione del Festival. Un vivace incontro tra il regista e il suo pubblico, condotto da Bruno Torri e Vito Zagarrio, nel corso del quale, ancora una volta, l’attenzione si è concentrata sull’ultima opera del regista, cui è stata dedicata, presso la Galleria Mancini, una mostra fotografica che contribuisce a rivelarci un Moretti inedito.
Sono andato a vedere Habemus Papam un po’ prevenuto. Dopo aver letto un gran numero di recensioni, quasi tutte positive, ma con qualche distinguo da parte cattolica, e conoscendo la filmografia e la poetica di Moretti, immaginavo un film “psicanalitico” incentrato sul tema della depressione, dell’inadeguatezza, del fallimento.
Tutto mi induceva a pensarlo, la scelta del nome del protagonista, ad esempio: Melville, come l’autore di “Bartleby lo scrivano” che, qualunque cosa gli si chieda, risponde: “Preferisco di no” e rappresenta, come ha osservato Achille Bonito Oliva, la più efficace rappresentazione letteraria della depressione.
Come Bartleby, anche il cardinale Melville, una volta eletto, risponde all’Habemus Papam: “Preferisco di no“, viene colto da un attacco di panico e si rifiuta di affacciarsi alla loggia di San Pietro. Il Sacro Collegio decide, di fronte a un evento così imprevisto e drammatico, di sottoporlo alle cure di uno psicanalista, ma lui si sottrae, elude la sorveglianza e si perde per le vie di Roma, smemorato, sconfitto, del tutto incapace di accettare l’enorme responsabilità alla quale è chiamato. Alla fine, ritorna in Vaticano e si affaccia alla Loggia delle benedizioni, ma solo per proclamare la sua rinuncia al papato. Questa, in estrema sintesi, la trama del film.
La maggior parte dei critici ha visto, in questa parabola, la denuncia di una condizione umana segnata dall’inadeguatezza e dal fallimento che ci accomuna tutti e può segnare anche la sorte di chi è chiamato ad una delle più alte responsabilità. Un film psicologico o psicanalitico, insomma, un’interpretazione superficiale, riduttiva, che non mette al centro dell’opera quella che secondo me è invece una visione morettiana della Chiesa e del papato, nella sua grandezza e nella sua fragilità. Un film, insomma, con grandi ambizioni . vediamo perché.
Anche se è evidente che il film faccia riferimento a una condizione esistenziale comune, che induce persino gli scettici cardinali a sottoporre il neoeletto alle cure di uno psicanalista (uno psicanalista da psicanalizzare, quello interpretato da Moretti), in esso c’è di più: un riferimento a una condizione specifica, del tutto eccezionale, e cioè quella di un uomo che si veda all’improvviso investito della più alta autorità spirituale.
In una delle sequenze iniziali vediamo il Sacro Collegio riunito in Conclave in una Sistina perfettamente ricostruita. Il regista si sofferma sui cardinali, ciascuno dei quali, nella sua lingua, invoca il Signore di risparmiargli un peso troppo grave per le sue fragili spalle di “povero cristiano“. Le loro voci si sovrappongono, in un crescendo che culmina in una invocazione corale.
Un’immagine che stride con quella consueta di un Conclave dominato dall’ambizione e dagli intrighi. Un’immagine che non è casuale ma, fin dall’inizio, ci fa capire come Moretti abbia l’ambizione di darci una sua personalissima visione della Chiesa e del papato. Una visione che, nel dipanarsi della storia, si rivela, pur con qualche venatura ironica, ma mai volgarmente macchiettistica, densa di umanità e di poesia, pervenendo, in alcune memorabili sequenze, a un’intensità drammatica e a una potenza espressiva straordinarie e commoventi.
I cardinali, in attesa che il Papa “rinsavisca“, sono tenuti all’oscuro della sua fuga e vengono intrattenuti dallo psicanalista, segregato a sua volta in Vaticano, che si inventa, come attività ricreativa, un torneo di pallavolo. Secondo Luca Pellegrini, di Radio Vaticana, le sequenze del torneo sarebbero esageratamente lunghe e caratterizzate da un esasperato surrealismo. Non funzionali, insomma, non significative, ma solo dispersive e contrassegnate da un malizioso tocco che ce li presenta non come Principi della Chiesa, ma come ingenui ed entusiasti ragazzotti d’oratorio.
Non sono d’accordo. Anche le lunghe sequenze del torneo sono finalizzate alla caratterizzazione dei singoli cardinali, il cui fine è quello di evidenziare la loro umanità, la loro semplicità e le loro debolezze. Come quando il decano del Sacro Collegio bussa alla porta delle loro stanze per augurare la buona notte e li vediamo intenti a semplici e onestissime occupazioni: un solitario, un puzzle, una pedalata sulla cyclette o alle prese con flaconi di ansiolitici.
Dei ”semplici”, dei puri, quasi dei bambini, animati da una fede sincera e profondamente preoccupati per le sorti della Chiesa e del Papa. Delle macchiette, direbbe qualcuno, personaggi grotteschi che in nulla somigliano all’immagine solenne di coloro che compongono uno dei più alti e più severamente selezionati consessi.
E allora qual è, se ce l’ha, il senso di tutto ciò? Perché Moretti ha voluto regalarci quest’immagine commovente e intensamente poetica, che certamente non corrisponde alla realtà? Non certo per deridere, non certo per descrivere uno scenario di miseria e di squallore umano ma, e in questo risiede secondo me l’ambizione di Moretti, per mostrarci una Chiesa non quale essa è ma quale egli vorrebbe che fosse. Una Chiesa che si spoglia di tutta la sua pompa, del suo potere, delle sue malizie, dei suoi intrighi, delle sue cupidigie. Una Chiesa debole, dimessa, sofferente, schiacciata dal peso di una immane responsabilità spirituale ma che, proprio in virtù di quella purezza che egli vagheggia, ha in sé la forza che può consentirle di continuare ad assolvere la sua missione nel mondo.
Un mondo nel quale Melville (interpretato da uno straordinario Michel Piccoli) si aggira sperduto, sconfitto, in una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di un senso. Un senso che non riesce a trovare e lo porta, al termine del suo inutile pellegrinaggio, nel mondo dell’evasione poetica, in un teatro dove si mette in scena quel Cechov che egli aveva recitato da ragazzo, prima di seguire la sua vocazione, e col quale si chiude il cerchio della sua esistenza. Ed è a questo punto, nella sequenza più straordinaria e poetica del film, che irrompono in sala i cardinali che rivolti a lui, al Papa che credono ritrovato, e non alla scena, lo acclamano, seguiti dal pubblico e dagli attori.
Ma il finale è amaro, e qui la visione di Moretti mostra la corda, perché è una visione terrena, non trascendente, che si rivolge solo alle forze umane e non contempla quella infusa dallo Spirito Santo. Il Papa rinuncia e i cardinali si coprono il volto con le mani, per non assistere a quella che è anche la loro sconfitta. Chi, fra di loro, sarà chiamato a succedergli? Dove, dopo quell’evento inaudito, potrà trovare la forza per sopportare un così grave fardello? In quel momento è come se il sogno morettiano si infrangesse. E’ come se Dio li avesse abbandonati, lasciandoli soli nelle tenebre, non rischiarate dalla luce dello Spirito.
Da un “laico” come Moretti non potevamo aspettarci di più, ma è anche vero che di quel sogno, al termine della proiezione, ci rimane, nonostante un finale apparentemente disperato, una luce che non è quella dello Spirito…ma è pur sempre una luce”.
Federico Bernardini
Illustrazione: Nanni Moretti, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Nanni_Moretti_Giffoni.jpg