Passano gli anni ma il fascino dell’opera prima di Lorenzo Bianchini resta immutato. Radice quadrata di tre (2001) vide la luce in un periodo particolare per gli appassionati del genere, i quali, all’ora assediati dalla nuova tendenza dell’horror made in Japan, e praticamente privati di qualsivoglia sussulto tricolore, trovarono in questo amatoriale prodotto friulano un motivo di orgoglioso e italico vanto.
Piccolo caso nazionale, Radice quadrata di tre varcò i confini regionali a suon di passa parola, affascinando con il suo dialetto e approdando in dvd nel 2005 subito dopo aver (già) rivelato il talento di un regista capace di colpire in pieno il bersaglio, nonostante la pochezza economica dei mezzi a sua disposizione. Rivederlo oggi poco o nulla toglie all’emozione originale, perché l’esordio di Bianchini è uno di quei pochissimi horror contemporanei in grado di far davvero paura, mantenendosi comunque fresco, facendosi beffa del tempo che passa.
Immerso in un’atmosfera sinistra e dai presagi satanici, Radice quadrata di tre palesa, senza mai ammiccarvi, le influenze più svariate, proiettando la memoria intorno ai ricordi del primo Pupi Avati accompagnato dagli echi dell’Amenabar di Tesis (1996) e del Francesco Barilli di Il profumo della signora in nero (1974); senza per questo dimenticare un’innegabile e costante aura polanskiana, che prende per mano la pellicola sequenza dopo sequenza pur non affondando mai nell’omaggio spudorato e superficiale. Interamente “do it yourself”, Radice quadrata di tre stupisce non tanto per il fascino artigianale degli effetti speciali impiegati per la sua realizzazione (attori non professionisti alle prese con stinchi di maiale, salsa di pomodoro e mani finte), bensì per un’oculata scelta registica finalizzata principalmente all’esaltazione della messa in scena, all’interno della quale il fuori campo, da quasi costrizione legata alla lavorazione praticamente “no budget”, si trasforma in asso della manica per far correre il più classico dei brividi lungo la schiena dello spettatore. Merito soprattutto di una mano fermissima dietro la macchina da presa, che fa dell’ambientazione scolastica e claustrofoba il suo fiore all’occhiello, esaltata da un rincorrersi di campi lunghi resi ancora più efficaci da un montaggio con i fiocchi. Radice quadrata di tre viaggia su velocità che molti horror mainstream nemmeno immaginerebbero di raggiungere: detto senza tanti giri di parole un piccolo miracolo di cinema indipendente.
Luca Lombardini