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Nostalgia degenere: tre thriller per mandarvi dallo psichiatra

Creato il 03 dicembre 2014 da Cicciorusso

Torna la rubrica dedicata a quella magica età dell’oro del cinema italiano che nessuno di noi ha vissuto in prima persona ma che, nonostante questo, o forse proprio grazie a questo, tendiamo a mitizzare, restituendo credibilità e dignità anche alle opere oggettivamente più discutibili. Dopo aver ripercorso i polverosi sentieri del western, addentriamoci negli ambienti borghesi, teatro dei tre thriller scelti per voi.

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CHI L’HA VISTA MORIRE? (Aldo Lado, 1972)

Una bambina dai capelli rossi viene misteriosamente assassinata sulle alpi francesi nel 1968. Quattro anni più tardi la stessa sorte capita alla figlia dello scultore Serpieri (George Lazenby), da poco arrivata da Londra a Venezia per fare visita al padre, il quale si improvviserà investigatore, seguendo le tracce di un altro omicidio di una bambina dai capelli rossi, avvenuto in Laguna l’anno precedente.

Quando un regista si presenta, a 27 anni appena compiuti, con un film come La corta notte delle bambole di vetro, significa che è un talento da preservare e coltivare oppure che ha firmato un exploit imprevedibile ed irripetibile, frutto di una serie di combinazioni che col talento hanno solo marginalmente a che vedere. Aldo Lado rientra a pieno titolo nella prima categoria, almeno a giudicare dalla sua produzione nel corso degli anni settanta, che poi rappresenta la quasi totalità della sua filmografia, prima di passare alle serie tv e ad altri progetti. Chi l’ha vista morire? nasce quasi per caso: Lado era aiuto regista di Bertolucci ed avrebbe dovuto fare da assistente in L’ultimo tango a Parigi ma, nello stesso periodo, Marlon Brando venne scelto da Coppola per la parte di Don Vito Corleone nel Padrino, costringendo il regista italiano (che non ammetteva alternative a Brando) a posticipare di qualche mese le riprese. Il produttore Enzo Doria, che già aveva finanziato l’esordio di Aldo Lado, gli propose quindi di realizzare un altro film, ambientato a Venezia. Il cast, come nella pellicola precedente, era di tutto rispetto: oltre a George Lazenby, fresco di cantonata (anche economica: pare che i produttori gli avessero addebitato anche le spese di vitto e alloggio) per quello che,a giudizio di scrive, rimane il miglior film della serie di 007, ne fanno parte l’onnipresente Nicoletta Elmi (quindici film in cinque anni tra il 1970 ed il 1975, prima di eclissarsi e tornare, anni dopo, come improbabile dark girl nei Ragazzi della 3ª C), la svedese Anita Strindberg e Adolfo Celi, in un rimando di citazioni bondiane.
Chi l’ha vista morire? è un film ambiguo e figlio del suo tempo, capace di sfruttare al meglio una delle location naturali più suggestive del mondo e contemporaneamente più sottovalutate a livello cinematografico: Venezia. Lado, triestino di nascita ma veneziano d’adozione, la trasforma in un girone infernale dominato da placide atmosfere funebri. I personaggi sembrano tutti nascondere qualcosa e, se quello del prete, interpretato da Alessandro Haber, si dimostra solo apparentemente rassicurante, è anche vero che la coincidenza temporale tra l’adulterio consumato da Serpieri e il rapimento della figlia, ha tutta l’aria di essere una sorta di zuccherino sulla pillola amara della critica anticlericale. Indimenticabili tanto la colonna sonora di un Morricone all’apice della creatività, quanto il montaggio ad opera di Angelo Curi.

 

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TUTTI I COLORI DEL BUIO (Sergio Martino, 1972)

Sconvolta dall’assassinio della madre al quale ha assistito da piccola, Jane (Edwige Fenech) viene coinvolta in un incidente automobilistico che le fa perdere il figlio che porta in grembo. Inizia un travagliato percorso tra psichiatri, dottori e sette sataniche, sempre in bilico tra la realtà ed il disturbo mentale della protagonista, mal supportata dal proprio compagno (George Hilton) e da una vicina di casa (Marina Malfatti) imprevedibile e pericolosa.

Uscito un anno dopo Lo strano vizio della signora Wardh, mantiene praticamente inalterato il cast, col duo Rassimov-Hilton che, ancora una volta, gigioneggia per novanta minuti lasciando sempre l’impressione che stia facendo le scarpe alla Fenech. In realtà le assonanze col predecessore si esauriscono qui perché, fin dall’incipit lynchano, Tutti i colori del buio vira quasi verso l’horror, richiamando le atmosfere di mostruosa normalità alla Rosemary’s Baby con qualche tocco gotico in stile Hammer, presente soprattutto nella sequenza del Sabba. La sceneggiatura, firmata da Gastaldi (uno che aveva messo le mani anche sul più importante film di fantascienza della storia del cinema italiano, La decima vittima) procede secondo gli schemi classici del thriller italiano, ovvero trasformando e ribaltando in continuazione i ruoli dei buoni con quelli dei cattivi, anche a scapito della coerenza interna della scrittura. Tolta la Fenech, che in questa prima parte della sua carriera assume sempre il ruolo fiabesco della donzella ingenua e costantemente in pericolo, gli altri personaggi sembrano usciti tutti da un noir, tanto è ambiguo ed incomprensibile il loro comportamento. Il tema delle sette sataniche, che in quegli anni iniziava a diventare piuttosto sentito dall’opinione pubblica, dopo gli omicidi della Manson Family, rimane, in questo caso, più un pretesto per sfruttare le location britanniche che non un vero e proprio spunto da sviluppare per affrontare tematiche esoteriche. Su riti e magia nera, Sergio Martino darà il meglio di sé qualche anno più tardi.

 

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IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO (Francesco Barilli, 1974)

La giovane chimica Silvia Hacherman (Mimsy Farmer) convive con il rimorso di aver causato la morte della madre in tenera età. Fragile ed incapace di vivere serenamente anche i rapporti affettivi, la ragazza rimane colpita dal racconto di un sociologo africano sui riti voodoo e le messe nere in Africa, tanto da iniziare ad avere incubi ed allucinazioni. Lo stato di paranoia si aggrava fino a farle credere di essere al centro di un complotto contro di lei, che coinvolge i suoi conoscenti.

Due anni dopo aver sceneggiato Chi l’ha vista morire? - ed averne pesantemente criticato la realizzazione di Lado – Francesco Barilli fa il suo esordio dietro la macchina da presa con un thriller dalle forti velleità autoriali, frutto di un compromesso coi produttori che, in mano ad altri, avrebbe potuto dare vita ad un raccapricciante ibrido trash degno di un Zorro contro Maciste qualsiasi. Barilli racconta come la storia sia nata durante la permanenza in Congo per lavorare alla scrittura de Il paese del sesso selvaggio, diretto da Lenzi. Dall’esperienza diretta con riti e magie voodoo, il regista partorì l’idea per un film, metafora anticapitalista, su una setta di banchieri svizzeri dedita al cannibalismo nelle fogne di Ginevra. Contestualmente, influenzato da Polanski, iniziò a scrivere il soggetto per una seconda pellicola, un thriller psicologico a metà strada tra Rosemary’s Baby e Repulsione, ma la casa di produzione decise di finanziare un solo progetto, a patto che unisse i due spunti in un’unica storia. Nacque così Il profumo della signora in nero, viaggio dentro le paranoie ed i conflitti irrisolti con il proprio passato di Mimsy Farmer, sempre pienamente a suo agio nella parte della frigida complessata. La cura nei dettagli è maniacale (Barilli non si limitò a scrivere un copione, ma descrisse minuziosamente ogni singolo movimento di macchina) e la scelta della location principale si rivelerà essere una delle mosse migliori del film. Girato a Roma, ha il suo epicentro nel piccolissimo quartiere Coppedè, minuscolo agglomerato urbano incastonato tra la Salaria e la Nomentana, miscuglio di stili, dal liberty al barocco, sfruttatissimo da Dario Argento negli anni a venire. Scelto per le sue particolari caratteristiche, il quartiere svolge una duplice funzione: da una parte, le sue architetture eleganti ma surreali contribuiscono ad accrescere il senso di crescente straniamento della protagonista, dall’altra, l’insolita urbanistica circoscrive in un ambito claustrofobico la vicenda, in un continuo richiamo di simboli e archetipi psicologici.Il finale, memorabile e vittima di qualche sforbiciata della censura, certifica definitivamente Barilli come precursore del filone cannibal movie, con tre anni d’anticipo rispetto a Deodato.



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