Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 13, 2011
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E così, arrivai io. Una certa etichetta saltò subito: la distanza e la freddezza, il tenersi sulle proprie o il rinchiudersi nei sacri palazzi non facevano per me.
L’edificio magnifico nel centro della Piazza – ricordo quella volta che ci portammo due ragazze svizzere, nella piazza dico, dopo aver fatto le guide al litorale e al Teatro romano di Ostia Antica; ci aspettavamo una gratitudine allegra e invece, appena dopo la birra, ci piantarono.
La scalinata, a Sotto il Monte, sembrava portare in paradiso: e non era il paradiso quello che si spalancava oltre il portone?
Tra le case popolari non c’è alcuna differenza: pareti lisce e finestroni, il muro quasi sempre scorticato, il tetto smozzicato che sputa frammenti di cemento.
Si stupirono nel vedere il papa che scendeva in strada: quando era accaduto un miracolo simile? Ma non ero un miracolo, ero un uomo come gli altri.
Quanto sarà costata la ristrutturazione? – ce ne andammo a testa bassa: avevamo faticato tanto! Avevo modellato perfino i monti di sabbia su cui fingevo di sciare, con l’indice e il medio della mano destra.
Il crocifisso era avvolto nella luce; nell’abside, un affresco che ritraeva una folla minuscola intorno a una madre col bambino e angeli che si sentivano come a casa loro.
I panni appesi alle finestre sono il diario intimo degli abitanti: da camicie e calzini, mutande e canottiere, si può ricostruire una vita nei minimi dettagli.
Fu così che andai al Bambin Gesù e, incredibile dictu, varcai le soglie di Regina Coeli.
E chi avrebbe dovuto sostenere le spese ingenti, necessarie per restituirlo allo splendore originario? – ridevano, scherzavano, sembravano disposte a tutto, valle a capire queste svizzere.
Ma forse tenevo addirittura più al santuario: la costruzione bassa con un portico piccolo e elegante, dove andavo per chiedere le grazie.
Perché la storia è fatta di dettagli: se ne perdi uno, rischi di non capire più nulla della vita.
I detenuti non potevano credere a quello che vedevano: ho provato a dire cose semplici, la mia specialità.
Forse perché era un’opera d’arte fu lo Stato a intervenire? – eravamo studenti del liceo, per cui girammo a piedi e con i mezzi; anche prendere l’autobus e il trenino diventava fonte di battute, di risate, e , si sa, se una donna ride è quasi fatta.
Che grazie potevo chiedere, in quegli anni? La salute di mio zio, il lavoro di mio padre, che il terreno desse un raccolto sufficiente.
Sì, ho imparato che la storia comincia dai calzini, dalle vene varicose, dalle pillole messe in fila tra il bicchiere e il piatto.
Mi meravigliai quando li vidi piangere perché avevo parlato loro dei bambini e delle spose. Non potrò dimenticare le lacrime dei detenuti: ancora oggi, a volte, allungo una mano nel vuoto per asciugare una guancia raggrinzita o la mascella di un giovane robusto.
Che sia meglio non farsi domande come queste? – ridendo e scherzando, spendemmo tutto quello che avevamo in tasca. Gli ultimi soldi servirono a ordinare la birra nel locale suggestivo della Piazza. Come saremmo ritornati?
La chiesa più antica era quella dove venni battezzato: chi l’avrebbe detto, allora, che sarei finito qui e avrei cercato ancora gli odori, i sapori, i colori che non volevano saperne di staccarmisi di dosso?
Sì, la storia comincia dalle baracche accavallate le une sulle altre nel fossato putrido, dal bambino che corre facendo rotolare il cerchio, dal vecchio che culla il nipote nel passeggino sgangherato.