Magazine Horror
Una nuova vita per Violetta di Erika Bissoli Creatura: Unicorno
Violetta lisciò una piega immaginaria del top di cotone. Aveva acconsentito ad accompagnare Tanya e Stefania al rave party solo perché non aveva la minima intenzione di restare in casa di sabato sera, soprattutto dopo che Enrico aveva fatto ben comprendere che preferiva la compagnia di Susanna alla sua. “Che stronzo!” pensò, gettando il mozzicone di sigaretta nell’erba. Erano stati insieme per tre mesi, durante i quali le aveva fatto credere di essere speciale, solo per farle scoprire di essere stata il ripiego perfetto nell’attesa che Susy tornasse dal viaggio in Inghilterra. «Smettila di pensarci, Viò» le disse Stefania, indovinando i suoi pensieri «E’ un deficiente quello. Guardati in giro, stasera... divertiti e dimenticalo». «Ci sto provando, giuro... solo che è così difficile» replicò «Comunque non preoccuparti per me, sono solo arrabbiata, tutto qui». «Coraggio, ci siamo noi a tirarti su il morale, tesoro!» le parole di Tanya, con quel suo accento russo la fecero sorridere. Violetta tornò a guardare la folla che riempiva lo spiazzo del bosco. “Mamma mia, quanta gente che c’è!” pensò, lasciando vagare lo sguardo sulla moltitudine di teste che si dimenavano a ritmo di musica. Circa due ore e tutta una serie di beveraggi assortiti dopo, Violetta non aveva altro in testa che non fosse la musica: infatti, la ragazza si dimenava come un’ossessa tra i ballerini, poco lontano dal bordo pista. Completamente ubriaca e di colpo con la gola riarsa, si avviò verso il tavolone attrezzato a bar, cercando con lo sguardo le amiche; non riuscendo a scorgerle, si strinse nelle spalle e raggiunse la sua destinazione, dicendosi che le avrebbe cercate dopo aver preso qualcosa da bere. «Ciao,» fu salutata all’improvviso, mentre aspettava che il ragazzo che fungeva da barman si avvicinasse «Tutta sola?» Violetta si voltò sbuffando e si ritrovò a faccia a faccia con un ragazzo che doveva essere poco più vecchio di lei. «No, sono qui con delle amiche» rispose, prima di tornare a rivolgere la propria attenzione all’altro «Un cuba, per favore». «Due... e offro io». «Non occorre». «Mi fa piacere» spiegò lui «Sono Michael». «Violetta». «Porti il nome di un fiore...» osservò lui, sorridendo gentile. «Tu quello di un angelo...» Come fosse finita, diverso tempo dopo, nel bel mezzo del bosco, lontano dalla folla, con due birre in mano e una pastiglietta bianca con su disegnato un fiore lilla, Violetta non avrebbe mai saputo spiegarlo. “Michael e la sua parlantina sciolta” sbuffò, osservando quella caramella speciale. «Ti farà dimenticare tutti i tuoi guai, almeno per questa sera», le aveva detto il ragazzo, porgendogliela in cambio di un solo deca. Nonostante non fosse del tutto convinta, con un sospiro Violetta ingoiò la pasticca, accompagnandola con un lungo sorso di birra; capì che la droga stava facendo effetto quando sentì le orecchie tapparsi e la radura deformarsi. Trovò la cosa divertente. Rise. Diede un buffetto sulla spalla di Michael, e si rese conto di aver battuto le nocche della mano destra sul tronco di un grosso pino. Rise di nuovo. Imprecò per il dolore. Rise ancora. Michael era scomparso e lei era tutta sola nel buio. Il cielo che s’intravedeva tra le fronde era cosparso di stelle, nessuna nuvola. L’erba che sentiva sotto il mento e contro la guancia odorava di fresco ed era umido. Violetta sentì le membra pesanti, le orecchie ronzare. Avvertì l’aria sulla pelle nuda delle spalle. Gli occhi si riempirono di lacrime, mentre ricordava i bei momenti passati in compagnia di Enrico e quelli con le amiche di sempre. Adesso, non rideva più. Tutta l’euforia provata fino a un attimo prima si era trasformata in disperazione e solitudine. Non voleva più stare da sola. Non voleva più il silenzio del bosco e la sua oscurità. Eppure, se apriva gli occhi, vedeva solo il buio, nessuna luce. La ragazza richiuse gli occhi e li strinse forte, cercando di scacciare quella sensazione e ritrovare la spensieratezza di qualche istante prima. Vide la sua famiglia che la raggiungeva in una spiaggia assolata e calda. La sabbia bollente sotto i piedi. Il costume azzurro le stava così bene. Un tocco leggero e umido. Quando aprì gli occhi nocciola, la ragazza fissò le narici frementi di un cavallo bianco, che nitrì e sbuffò, scuotendo la folta criniera, e pensò che doveva essersi addormentata. Perché non ti alzi e mi segui, Violetta? Si sentì chiedere senza parole. Ubbidiente, le braccia la ressero quando puntellò le mani sul terreno e si sollevò. Allo stesso modo, anche le gambe decisero di collaborare. Il destriero si voltò con un’ultima occhiata in tralice, prima di muoversi in direzione di quel buio che Violetta aveva contemplato per diverso tempo, stesa a terra, senza riuscire a muovere un solo muscolo. Lei lo seguì, avvertendo una profonda fiducia crescere nei confronti di quel cavallo bianco. Quando si girò per assicurarsi che lo stesse seguendo, notò il grande corno traslucido che gli ornava la fronte e ansimò stupita, ma non cambiò passo, continuando ad avanzare sulla strada che lui le apriva. Che cosa stai combinando, Violetta? Perché cerchi di farti del male in ogni modo possibile? «Come fai a conoscere il mio nome? E come fai a parlarmi in questo modo?» domandò la ragazza, stupita di sentire la sua voce nella mente. Io comunico così con voi mortali... spiegò la voce, così calda e gentile. Ora, vuoi spiegarti? «Io cerco solo di divertirmi». I tuoi divertimenti ti fanno del male. Non hai un altro modo per dilettarti? Un tempo, non giocavi con l’alcol, il fumo e le droghe: ti bastava la compagnia delle amiche, fantasticavi e inventavi così qualche nuovo gioco, e... «Sono cresciuta. Quei giochi non mi piacciono più» ribatté Violetta interrompendolo. E’ un peccato...osservò la voce, con tono malinconico ...ma suppongo faccia parte del crescere. «Supponi bene». Proseguirono in silenzio, fermandosi solo quando la sua guida parve arrivata a destinazione. «Perché siamo qui?» Non c’è un motivo in particolare. Mi chiedevo perché i giovani umani si divertissero così tanto a giocare con le proprie vite. Tutto qui. La ragazza lo guardò fisso negli occhi intelligenti, simili a pozzi neri, aggrottando la fronte. “Strana osservazione” pensò “Io non sto giocando con la mia vita. Solo... sto cercando di divertirmi, di non pensare a Enrico...” Quindi è solo per questo? Solo per fingere che qualcosa non sia successo? «Mi leggi anche nel pensiero adesso?» Fa parte del mio essere. Le sembrò quasi che intendesse scusarsi, mentre abbassava il muso e guardava il suolo. E Violetta sorrise di quella strana situazione. «Devo essere strafatta se parlo con un unicorno in mezzo al bosco in piena notte». Al contrario: non sei mai stata più lucida. «Davvero?» mormorò scettica, inarcando un sopracciglio. Forse dovrei solo lasciarti andare... è che sei così giovane, ed io non voglio vedere un altro di voi prendere quella via. «Quale via?» Non importa. Avvicinati, voglio mostrarti una cosa. «Cosa?» domandò, portandosi al suo fianco. La vista la lasciò senza fiato: da quel luogo poteva vedere perfettamente quello che l’aveva fatta innamorare della propria città. Il panorama notturno che si godeva dalle colline veronesi era splendido: quando solo mille punti di luce illuminavano il buio e una luna danzante brillava placida nel cielo, la sua Verona era magica «E’ bellissimo qui». Non stai guardando quello che voglio io. «E cosa dovrei guardare?» domandò allora, accompagnando le parole con uno sbuffo spazientito. Laggiù, tra gli alberi... Violetta cercò con lo sguardo quello che l’unicorno voleva lei vedesse, fino a che uno strano bagliore attirò la sua attenzione. Era il ciondolo della collana che portava al collo, che rifletteva la luce della luna. Solo che era ancora alla sua gola. «Ma come...?» Secondo te come? «Sono io quella?» Sì. «Sono morta?» domandò Violetta, con il cuore in gola. Non lo so. Non sono io che decido. Vedere il proprio corpo steso e abbandonato sull’erba dava una sensazione di abbandono che Violetta non aveva mai provato prima di quel momento, e rabbrividì quando Stefania e Tanya la raggiunsero e s’inginocchiarono accanto a lei, più in basso. Tanya si coprì la bocca con le mani. Stava piangendo. «Cosa succede?» Hanno paura. Non la senti? È l’emozione fredda che stai provando adesso. «Tu senti cosa si dicono?» L’animale fece un cenno affermativo con il capo. Se tocchi il mio corno, lo puoi sentire anche tu. Violetta lo fece, in fretta, preoccupata per quel gelo che sentiva crescere nell’anima. «Smettila e chiama il 118!» diceva Stefania. «S-sì... cazzo, non prende qui!» «Impossibile! Ma chi stai chiamando? I numeri di emergenza rispondono sempre! Muoviti... oh, dammi qua, faccio io!» Ancora lacrime, poi le parole sconnesse al pronto intervento di Stefania, che riusciva in qualche modo a mantenere il sangue freddo, anche se Violetta la sentiva tremare. «Dai tesoro, respira...» diceva adesso l’amica, girandola verso l’alto «Se ti azzardi a morire ti uccido, capito?» Violetta avrebbe voluto tanto dirle che se era morta, non avrebbe avuto occasione di ucciderla, di sicuro. «Volevo chiamare i suoi!» disse Tanya in quel momento. «Ma sei fuori? Viò ha bisogno di un’ambulanza!» «Non voglio morire, unicorno» mormorò Violetta, togliendo la mano dalla creatura solo per girare le spalle alla scena e guardarlo dritto negli occhi. Come ti ho detto, non dipende da me. «E allora come mai sono qui?» Volevo capire... voi umani siete così stupidi, a volte... non comprendete quanto siete fortunati. «Voglio tornare indietro». Non è a me che devi chiedere. L’arrivo dell’ambulanza sulla stradina principale, i carabinieri e altre forze dell’ordine che interrompevano il rave, i volontari che raggiungevano Stefania e Tanya e si davano da fare con il suo corpo. Qualcuno scuoteva la testa. Un altro rassicurava le ragazze. Il terzo che le attaccava la flebo nel braccio.Avrebbe voluto sentire i pensieri di quegli uomini, ma ne ebbe anche paura. Inoltre, lui non sembrava volesse essere toccato di nuovo. Si stanno chiedendo come si può essere tanto stupidi. «Ora me lo sto chiedendo anch’io». Presto telefoneranno ai tuoi genitori. Sei pronta? «Pronta per cosa?» Il dolore delle tue amiche non è paragonabile a quello che proveranno tua madre e tuo padre. «Non voglio esserci». Lo farai, invece... l’ambulanza sparì dietro la curva, a sirene spiegate ...ora sali sulla mia groppa. Arriveremo all’ospedale in pochi secondi. Violetta deglutì nervosa. Al gelo delle emozioni che stava provando, si sommò la paura del volo. Chiuse gli occhi e sperò che il suo compagno avesse ragione, e che quel volo durasse il tempo di un battito di ciglia.
Quando riaprì gli occhi, Violetta fissò l’agente di polizia in piedi accanto al suo letto nell’ospedale di Borgo Trento. Tra poco sarebbe passato anche il medico per confermarle le dimissioni. Si chiese se avesse sognato tutto: il rave, Michael, l’Unicorno. L’overdose di ecstasy e alcol che l’avevano quasi uccisa. «Allora, Violetta... il mio collega farà con te l’identikit dello spacciatore». «Ok». Suo padre era ancora nella stanza con lei: a sedici anni non avrebbe potuto rilasciare dichiarazioni senza la presenza di un tutore. L’unicorno (sempre che non lo avesse sognato) le aveva risparmiato di subire il dolore dei suoi genitori. Di questo, gli sarebbe stata per sempre grata. «Ricordi altro oltre al suo nome?» domandò il comandante. «Solo che si chiama Michael, che è molto alto e italiano. Credo che avesse un paio d’anni più di me». «Va bene. Grazie di collaborare con noi, Violetta. Speriamo di riuscire a prenderlo, con il tuo aiuto». «Lo spero anch’io, solo che...» disse la ragazza, abbassando lo sguardo «Non è solo colpa sua quello che è successo: se io non avessi acconsentito, non sarei qui». «Coraggio, il peggio è passato. Ora devi solo guardare avanti e ringraziare il cielo di essere ancora viva» disse, coprendo la sua piccola mano con la propria e stringendola rassicurante. Violetta sollevò gli occhi, stupita da quel gesto accompagnato da parole dal tono gentile, e quando fissò le iridi nere dell’uomo, così simili a quelle dell’unicorno cui doveva la propria vita, sorrise.
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