È nel nome del bandito pluriassassino ed ex-caporale dell’esercito Botones che si apre 35 morti dello scrittore colombiano Sergio Àlvarez (La Nuova Frontiera, 2013). Ritrovatosi sotto assedio nella casa in cui è ospitato, Botones si difende accanitamente fino all’ultimo respiro sfruttando le armi ben rodate di un feroce istinto di sopravvivenza e di un’assuefazione, diventata meccanismo involontario, allo spargimento di sangue. Ma è la sua ora.
Un romanzo che esordisce all’insegna della speranza dunque? Certo che no. Anzi, «Botones commise l’ultimo crimine nove mesi dopo la sua morte», recita l’incipit. Ultimo crimine che coincide con la nascita dell’eroe, che ne appare dunque vittima e insieme erede. L’ombra truce di Botones, come una maledizione, continua a aleggiare sul romanzo che si chiude ancora in suo nome, con un’apostrofe a lui, l’anima nera della Colombia che nessun puntuale e in sé efficace atto di giustizia o polizia può redimere o eliminare.
E, molto più concretamente, il sangue versato (e da versare) trova nuova carne in cui scorrere. Scorrerà ora nell’eroe di 35 morti, figlio di una donna che lo ha concepito con uno spasimante sempre rifiutato, a cui ha ceduto nella notte di disperazione in cui l’ha precipitata l’uccisione del suo vero amore da parte di Botones. E morirà la donna proprio partorendo il protagonista, già carnefice o almeno co-adiuvante del carnefice bandito, fin dal suo primo respiro. Come se in Colombia tutti fossero Botones o destinati a essere invasi dalla sua forza malefica e perversa, diventando vuoi assassini, vuoi vittime, vuoi entrambi.
L’eroe rimane anonimo nel corso di tutto il romanzo. La variata e dinamica struttura narrativa a blocchi di impianto epico-picaresco racconta in forma autobiografica il susseguirsi vertiginoso di avventure e incontri che intercettano fasi cruciali della storia colombiana del secondo Novecento. La voce principale lascia poi spazio a voci altre che con la prima si intersecano. Eroe anonimo (dunque rappresentante di molti, più che individuo) e coralità (dei colombiani che prendono voce): riconferma che Àlvarez ha inteso rappresentare l’anima contraddittoria, feroce e vitale insieme, buia e ansiosa di luce, della sua terra. E lo ha fatto rivisitando il genere picaresco, di cui sono topici appunto la prospettiva autobiografica e l’intreccio col contesto storico, senza il quale non si spiegherebbero l’indole, le sventure e le scelte del protagonista.
Àlvarez non ha nemmeno voluto scrivere una “leggenda nera” della Colombia e delle sue innumerevoli morti. Sono molto più di trentacinque infatti i morti di cui sono disseminate le pagine del romanzo. Trentacinque sono invece gli anni della storia colombiana attraversati dall’eroe (dal 1965 al Capodanno del 1999). Trentacinque sono gli anni morti e di morte di una Colombia che sembra condannata a generare carnefici e vittime.
Àlvarez ci racconta l’anima della sua terra in un romanzo la cui compagine affastellata e franta, caleidoscopica e plurivocale, espone ai nostri sguardi le tessere impazzite di un mondo antropologicamente esploso, lacerato e disgregato dalla pervasività della violenza (comune, di stato, rivoluzionaria) e della corruzione proprie del narcostato sudamericano.
Il brio, la spigliatezza, la vivacità dello stile narrativo e, specularmente, dell’approccio all’esistenza del protagonista, sono il contrappeso necessario a raccontare scene spietatamente dure tratteggiate con un realismo secco, pungente e aspro. L’istinto alla lotta e la voglia di vita appaiono lontani da ogni cliché esotico o terzo/quartomondista.
Ha scelto bene il genere romanzesco Àlvarez, dunque. Come ogni vero picaro, l’eroe orfano è scaraventato in un mondo senza leggi né morale, cerca di sopravvivere adattandosi alla realtà ostile che lo circonda, tra cercatori d’oro, guerriglieri rivoluzionari, teppisti di strada, paramilitari e narcotrafficanti. Lui stesso diventerà di volta in volta studente universitario, soldato, amministratore di bordello, narcotrafficante e infine spacciatore in Spagna. Dovrà farlo: adattarsi per sopravvivere, di là dal bene e dal male, è legge naturale. E sempre spererà e sempre fallirà, il nostro eroe. Fino alla fine. Col disincanto e col distacco amari e cupi e insieme vitali e ironici indispensabili a tollerare l'intollerabile.
Col rischio di perdersi, certo. «Mi misi a contare le città che avevamo visitato, quanti morti aveva fatto ogni bomba, quanti feriti, quanti corpi mutilati, quante vedove e orfani e affrettai il passo sempre di più fino ad arrivare sull’orlo di un crepaccio. E lì, come se all’improvviso tornassi il bambino di Barbacoas, mi sentii completamente perso». Così il protagonista, amorale per necessità ma ben presente a se stesso, scrive di essersi sentito davanti alle sponde del Telembì tra le cui onde passò il cadavere del padre. Perché, come sa bene chi in certi paesi è vissuto, il rischio fondamentale è perdersi: perdere la propria indole autentica costretta a diventare altro da sé; perdere la propria umanità obbligata a cedere il passo a un’egoistica e spesso brutale urgenza di sopravvivenza.
Come si pone allora Àlvarez di fronte alla sua Colombia? Il protagonista, a cui la vita non ha risparmiato nulla, scende dentro di sé. Riflette. Prende atto del disastro. E quasi miracolosamente torna il potente e istintuale attaccamento alla vita. E ricomincia, l’eroe. E ricomincerà sempre, perché vivere si deve. Il fantasma del Botones che infesta e ammorba la Colombia più cruenta insegue il protagonista fino alla fine, la notte del Capodanno del 1999. A lui e ai suoi figli simbolici, sempre vincitori, l’eroe augura, tra sarcasmo e disperazione, un buon anno. Ma l’anno nuovo ancora non è iniziato. Come sarà dunque, viene da chiedersi? Come sempre sono stati gli anni della storia colombiana, probabilmente. Ma nell’avventuroso e mai davvero sconfitto protagonista di 35 morti è maturata l’ennesima decisione costruttiva: «Che ci facevo lì, in quella città estranea, con un freddo che non c’entrava niente con la mia infanzia a Barbacoas, solo, sconfitto e con tanta voglia di morire? Non resterò qui, a costo che sia l’ultimo Capodanno della mia vita, pensai».
Aggiungo solo qualche notazione forse utile. Àlvarez, nato nel 1965, ha scritto 35 morti dopo 10 anni di riflessione, studio e inchieste dirette svolte tra i contadini, i guerriglieri e i narcotrafficanti che è andato a cercare e intervistare inoltrandosi negli angoli più sperduti e pericolosi della sua terra. Non credo si sbagli a pensare che le voci ascoltate siano ben presenti in 35 morti. Come vi è presente, credo, l’intimissimo mondo di uno scrittore sensibile, di grande naturalezza affabulatoria e dal percorso esistenziale tortuoso. Riferendosi alla redazione del romanzo, l’autore confessa che «è stato un esercizio di esorcismo, mi ha aiutato a scardinare paure e tensioni che mi portavo dentro dall’infanzia» (intervista di Tiziana Lo Porto, «Il Venerdì di Repubblica», 01/03/2013). Lo scrittore di Bogotà, figlio di un sognatore (si legge nel risvolto di copertina) e di una maestra elementare, ha abbandonato l’università per il sogno di costruire una comune, fino a quando guerriglieri e paramilitari non lo hanno obbligato a tornare nella capitale. Lavori per la televisione e la pubblicità, poi l’emigrazione in Spagna, dove scrive La lectora che ottiene il premio Silverio Cañada della Semana Negra di Gijón 2002. Ma in Colombia è dovuto tornare, Sergio Àlvarez, per ricominciare a scrivere. Forse per fare qualche conto con se stesso e con la sua terra. Il risultato è un romanzo crudo e appassionante, spietato e pieno di compassione. E che non parla solo della Colombia.
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