45. Golfo

Creato il 15 giugno 2011 da Fabry2010

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Se Ismail dovesse raccontare ciò che gli è successo, non sarebbe sicuro di riuscirci. Ricorda le palme, i tavolini, gli ombrelloni in fila davanti al lungomare, una sera chiara come i cristalli di Murano, il velluto blu del mare sul quale si posavano le macchie colorate delle barche. A sinistra, palazzi imponenti dominavano il golfo come vecchi imprenditori col panciotto, mentre i monti, in fondo, si godevano folate di vento che arrivavano a intervalli regolari. Senza pensarci più di tanto, le aveva offerto una birra. Forse era sorpresa, sbilanciata dal suo sguardo, dai suoi stupidi occhi azzurri di poeta fallito che parlava, parlava, ma lei non lo ascoltava, si limitava a seguire la linea dei capelli, la fronte leggermente corrugata, il naso dritto a strapiombo sulle labbra carnose; cercava di capire cosa si celasse dietro i cerchi blu sollevati verso l’alto, come un gesto di pazienza, di distacco dal mondo; e mentre l’altro parlava, parlava, forse dei tronchi delle palme, delle scaglie pelose, del perpetuo oshana dei rami, lei beveva, rigirava tra le mani la bottiglia vuota di Maccabee, manipolava la carta argentata che avvolgeva il collo, la grattava fino a strapparla, come volesse togliere la maschera all’uomo che la fissava da sotto in su, ragionando, forse, dei palazzi-imprenditori o dei monti stravaccati in cerca di ristoro o delle barche piene di luci sul velluto morbido del mare. Quanto tempo era passato prima che si ritrovassero nella stanza dai muri azzurrini, col letto e le poltrone grigioblu, un quadro in cui il mare in tempesta era una copia del suo cuore, del ventre agitato, delle mani che strappavano i bottoni, come la carta della Maccabee, mentre lei sorrideva, finalmente libera dall’obbligo di capire cosa nascondessero gli stupidi occhi azzurri che sembravano coglierla sempre di sorpresa, da prospettive sempre nuove, e ora si lasciava prendere come l’onda è penetrata dalla chiglia della nave, come il ramo di palma si lascia accarezzare dalla brezza della sera, come i monti scuri sullo sfondo, battuti dalle correnti d’aria e d’acqua, e si girava, si teneva i capelli, si apriva all’irrompere di lui, ma proprio quando tutto stava per esplodere come i fuochi d’artificio alla fine della festa, che cosa era successo? perché gli appariva il bambino con la faccia nella polvere, i pantaloni stracciati, il sangue che colava dal ginocchio, perché il figlio che urlava di fronte al padre morto, con le braccia striate rivolte verso il cielo, o l’uomo tirato per i piedi, con gli occhi coperti da una benda? Cercava di sentire in bocca il sapore della birra, ma avvertiva solo l’amaro della polvere e del sangue, provava a seguire l’ansimare di Avigail, ma udiva i pianti delle madri, le grida dei bambini, che cosa era successo, mentre lei cercava di stringersi e di spingere, e dai suoi stupidi occhi azzurri cadeva una lacrima insulsa, che avrebbe detto a Yousef, che cosa sarebbe andato a raccontargli?



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