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54ma Biennale di Venezia: il Padiglione Coreano con Lee Yongbaek

Creato il 08 dicembre 2011 da Milanoartexpo @MilanoArteExpo
54ma Biennale di Venezia: il Padiglione Coreano con Lee Yongbaek

Lee Yongbaek, Broken Mirror, 2011, 42 inch monitor, mac mini, monitor, stereo speakers, 115x77,5x9,5 cm - CLIC X INGRANDIRE

Qualche riflessione sulla 54ma Biennale di Venezia: il Padiglione Coreano. Testo di Emanuele Greco - A pochi giorni dalla chiusura della 54ma Biennale di Venezia mi sembra necessario tornare con spirito critico a quell’evento in modo da chiarire alcune impressioni ricevute durante la visita. Ciò che più mi incuriosisce tutte le volte che mi reco ad importanti eventi espositivi di arte contemporanea, come la Biennale di Venezia, è osservare l’atteggiamento del pubblico. Da alcuni anni, ormai, mi sembra di notare che il visitatore delle mostre d’arte faccia un uso smodato della macchina fotografica, rigorosamente digitale. In questi eventi si possono vedere i tipi più vari di macchine fotografiche: dalle più tecnologiche, con zoom potentissimi che sembrano quasi voler sparare contro l’obiettivo da cogliere, alle più compatte e portatili, da perfetto “turista di massa dell’arte contemporanea”. Le esposizioni di oggi, quindi, sembrano somigliare sempre di più ad una grande battuta di caccia, una sorta di safari: il visitatore, infatti, non è più tenuto soltanto ad osservare, in un silenzio meditativo, le opere esposte, ma sembra invece essersi trasformato in un attivissimo reporter, chiamato a documentare tutto, ad accumulare dati, fotografando ogni cosa che si muove, e soprattutto, a fotografare se stesso accanto all’opera più stravagante, come per mostrare la preda faticosamente catturata.

Anche l’opera d’arte, in queste esposizioni, sembra ormai non avere più un suo specifico valore. Ciò che è importante, adesso, è l’evento in sé, a cui si deve documentare di aver partecipato. In questo modo, camminando tra i padiglioni immersi nei Giardini della Biennale, è inevitabile finire per diventare noi stessi i soggetti ingrari di centinaia di fotografie scattate, fastidiosamente, ogni istante. Mi è capitato di notare uno scrupoloso visitatore fotografare una parete scrostata dell’Arsenale, forse scambiando quel vecchio muro per un’istallazione o un site-specific di un geniale artista contemporaneo!

Ma forse non è tutta colpa del visitatore. Forse è proprio il carattere sempre più effimero, quasi da happening, che queste manifestazioni sembrano aver assunto da alcuni anni, ad indurre l’osservatore, in un ultimo disperato tentativo, a cercare di fissare ciò che accade attraverso la fotografia, in modo da documentare ed allungare, per qualche momento in più, il breve battito delle ali di queste forme d’arte. Ma se, in fondo, fosse proprio questo tipo di eventi ad indurre un atteggiamento così grottesco nel pubblico, che quasi non si accorge di come sia stato catapultato in un grande Luna Park? È una domanda certamente provocatoria, ma non sempre legittima, perché anche in questa grande confusione di linguaggi si può trovare ancora, a mio avviso, emozione ed   elegante poesia.

54ma Biennale di Venezia: il Padiglione Coreano con Lee Yongbaek

Stanza con le opere della serie Broken Mirror, di Lee Yongbaek

Il mio pensiero va al Padiglione Coreano, che ho trovato tra i più interessanti e soprendenti dell’intera Biennale, e su cui mi vorrei soffermare. Il padiglione, il più recente di tutte le costruzioni dei Giardini (è stato edificato, infatti, solo nel 1995), si è distinto, a mio avviso, per la chiarezza e la compattezza della proposta espositiva. Il commissario, Yun Cheagab, ha selezionato un solo artista, Lee Yongbaek (1966), di cui ha proposto la mostra intitolata The Love is gone, but the Scar will heal (L’amore è andato, ma la ferità guarirà), in cui erano esposte le opere più interessanti degli ultimi dieci anni di attività dell’artista. Lee ha iniziato la sua attività artistica nei primi anni Novanta sperimentando vari e nuovi media, soprattutto video, fotografia e performance, fino a ritornare, negli ultimi anni, anche a mezzi espressivi più tradizionali, come la scultura e la pittura. A Venezia egli ha proposto una sorta di work in progress.

Angel Soldier (2011) era il titolo di una serie di opere, un video e alcune fotografie di grande formato, in

54ma Biennale di Venezia: il Padiglione Coreano con Lee Yongbaek

Lee Yongbaek, Angel Soldier_Photo, n. 1, 2011, c-print, 225x180 cm

cui apparivano alcuni soldati mimetizzarsi in una flora di fiori di plastica, dai colori vivaci e squillanti. Era una riflessione sulle condizioni sociali del nostro vivere contemporaneo, eternamente in bilico tra due opposti inconciliabili che erano indicati da Lee nella figura dell’angelo e in quella del soldato.

Una riflessione sull’essenza del vivere, cruda e poetica allo stesso tempo, si percepiva anche nel dipinto Plastic Fish (2011), dove l’artista aveva ritratto in forme iper-realistiche una serie di esche per pesci dai colori brillanti. Falsi pesci e pesci reali venivano in contatto nello spietato gioco della lotta per la sopravvivenza, fino a scambiarsi i ruoli: i pesci reali catturavano, da predatori, i piccoli pesci artificiali, finendo però per diventare loro stessi vittime degli umani.

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Lee Yongbaek, A sinistra: Plastic Fish, 2011, acrilico su tela, 230x360 cm; a destra: Pieta: Self-death, 2008, FRP, 4000x340x320 cm.

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Le due grandi sculture, Pieta: Self-hatred (2011) e Pieta: Self-death (2008), tratte dalla serie delle Pieta, approfondivano ancora il tema degli opposti. Entrambe le sculture erano composte da due figure, simili a cyborg, di cui una era la forma-madre e l’altra il suo calco. In Self-death il richiamo iconografico era alla Madonna, la forma-madre, che sosteneva il corpo di Cristo morto, il calco; mentre in Self-hatred le due figure combattevano tra loro alacremente, incarnando metaforicamente le contraddizioni dell’esistenza umana. Di grande impatto era inoltre la stanza dove erano inserite le opere della serie Broken Mirror (2011): quattro specchi in cui l’atto silenzioso del riflettersi dello spettatore era interrotto dal rumore improvviso di spari che infrangevano gli specchi, creando un senso di etraneamento nell’osservatore, diviso tra realtà e illusione. Infine, in un altro video, In between Buddha and Jesus(2002), ancora una volta l’artista rifletteva sugli

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In between Buddha and Jesus, 2002, 42 inch monitor, mac mini, monitor, stereo speakers, 148,5x129,5x10,5 cm

opposti, tentando però una mediazione e un’utopica unione. Nel video, infatti, si vedeva la trasformazione del volto di Cristo in quello di Budda e viceversa: due icone, quindi, diventavano, nell’arte, un’unica realtà. In quest’opera, tra le più interessanti del padiglione, Lee sembrava voler cercare, come ha scritto John Rajchman nel catalogo dell’esposizione, uno spazio neutrale tra il Cristo sofferente e il Budda sorridente: una riflessione sulla religione, certo (buddismo e cristianesimo sono le due religione più diffuse in Corea), ma anche una meditazione, a mio avviso, sull’identità nazionale coreana.

La tematica religiosa (una religione, si intende, sincretica, secondo il pensiero tipicamente estremo-orientale) che è sottesa in molte opere di Lee Yongbaek – si pensi, solo per fare alcuni esempi, a In between Buddha and Jesus, o al tema della pietà in Pieta: Self-death, o ancora alla tematica buddista del ciclo della vita in Plastic Fish è uno degli aspetti sicuramente più affascinanti del lavoro dell’artista.

La stessa fascinazione per il sacro si ritrova in un altro artista coreano, il famoso e quasi coetaneo regista Kim Ki-duk (1960), che tra il 2003 e il 2005 ha realizzato una serie di film in cui è maggiormente palese questa tematica, come: Spring, Fall, Winter…and Spring (Primavera, estate, autunno…e ancora primavera, del 2003), Samaria (La samaritana, del 2004), e The Bow (L’arco, del 2005).

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Scena tratta dal film di Kim Ki-duk, Samaria, 2004

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Mentre osservavo il padiglione a Venezia ricordo con precisione di aver pensato con insistenza ad un collegamento – che non so quanto possa essere giusto – tra le tematiche svolte dal regista e quelle dell’artista. Ciò che li accomuna è certamente un oscillare continuo tra la raffinata poesia e la spietata crudezza delle immagini. Ma anche la tematica del sacro si ritrova in entrambi. L’immagine del sacro, come icona, appare apertamente nei tre film citati di Kim Ki-duk: varie sono le immagini di Budda soprattutto in Spring, Fall, Winter…and Spring, ma anche in The Bow; e della croce che appare almeno una volta in Samaria.

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Scena tratta dal film di Kim Ki-duk, The Bow, 2005

Ma ciò che è più interessante è l’emergere in questi film di tematiche religiose sottese ad un racconto della quotidianità. Così, per esempio, in Samaria è evocata la figura della Samaritana incontrata da Gesù al pozzo nel famoso episodio narrato nel Vangelo di Giovanni, ma anche quella di Vasumitra, la leggendaria donna indiana che si dice dispensasse amore fisico agli uomini per risvegliare in loro la tensione religiosa verso le pratiche del buddismo. In Spring, Fall, Winter…and Spring, infine, vi è una scena in cui un vecchio maestro buddista insegna ad un giovanissimo ed indisciplinato allievo il rispetto per la vita in ogni sua forma. Il giovanissimo novizio, infatti, si era comportato in maniera cinica con alcuni animali, tra cui anche un pesce, a cui aveva legato per gioco un grande sasso. Ed è certamente curioso notare come sia Kim Ki-duk in questa scena del film del 2003, sia Lee Yongbaek, nell’opera Plastic Fish, abbiano utilizzato l’immagine del pesce per evocare la metafora del ciclo della vita. - Emanuele Greco

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Scena tratta dal film di Kim Ki-duk, Spring, Fall, Winter...and Spring, 2003


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