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56, Rue Decadur – un racconto di Mezzanotte

Creato il 28 maggio 2014 da Wsf

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Nell’androne del portone aleggiava da giorni un’insopportabile odore di lacca per capelli e pelle stantia.  L’aria all’interno, immancabilmente pareva sostare sul pavimento satura e senza via di fuga, sebbene le finestrelle di ogni piano venissero tenute costantemente aperte. Entrando era facile provare una sensazione di soffocamento e di svilimento del tanto comune piacere di sentirsi finalmente a casa. Rincasare a sera o peggio a notte tarda risultava ancor più desolante. Le luci fredde dei neon facevano risaltare ancor di più il piastrellato lercio demodé dell’ingresso.
Il lucido dei corrimano in alluminio e del plexiglass delle caselline della posta appariva irrimediabilmente macchiato dalla moltitudine di casuali ditate nere. Il marmo degli scalini ormai pregno d’ogni tipo di liquido, ormai assorbito negli anni. E spesso coperto da depliant pubblicitari e volantini sparpagliati alla rinfusa a mo’ di tappeto sconnesso. Tutto si insudiciava in meno di ventiquattro ore, tanto che non era più facile neanche distinguere la traccia di pedata nera da altro luridume d’occasione. Era stato giusto qualche giorno prima che l’inquilina del quarto piano mi aveva fermata sulle scale lamentandosi poi per delle strane macchie sugli scalini che conducevano fino alterzo piano. – E’ una vergogna ! Deve essere sangue di pesce … – mi aveva detto , cercando solidarietà ed alleanza per convocare la prossima riunione condominiale. Sarebbe certo servita a ben poco. Nessuno degli inquilini avrebbe mai pagato un’impresa perché pulisse a fondo ogni angolo di quel lurido posto. Si sarebbero dovuti servire di lamette per tirare via lo sporco consolidato anche nelle fessure più strette. Ho sempre attraversato l’androne distrattamente, dolendomi ogni volta non soltanto per quella sporcizia a cui mi ero ormai abituata, ma anche per l’accozzaglia di odori che s’erano fusi durante il giorno e che avevano ormai impregnato ogni centimetro del muro. Rincasando, quella notte avevo sperato di trovare l’ascensore al piano terra, invece come al solito era fermo al settimo piano. – Maria avrà innaffiato con il tubo a scroscio le sue piante sul terrazzo e domani ci sarà ancor più melma sotto le sue scarpe e sul pianerottolo – . Mi sarebbero toccati i soliti due o tre minuti d’attesa e l’annusare forzato di zaffate di cene notturne. Nell’attesa mi ero messa a fissare i tre scalini alle mie spalle che conducevano alla porta del cortile. Fino a due mesi prima era abitato da una vera e propria colonia felina. Ricordo che c’erano gatti di tutti i colori che si moltiplicavano di settimana in settimana e a cui le signore davano da mangiare apparentemente volentieri, lanciando loro ogni tipo di cibo dalla finestra. Da alcuni mesi circa erano però tutti misteriosamente scomparsi. La mia vicina di casa, un’ottantenne tanto benestante quanto baffuta con l’alito da topo, mi aveva raccontato che aveva visto di notte persone non meglio identificate prima dar da mangiare ai gattini e poi soffocarli con batuffoli imbevuti d’alcool. Ecco il motivo della sparizione. Adesso invece con la sparizione dei gatti erano subentrate colonie diverse di scarafaggi. Si diceva che quelli neri attaccavano i primi piani, quelli marroni gli ultimi.  Sulla porta del cortile infatti c’era un cartello che riportava la data dell’ultima disinfestazione ed anche quella della prossima derattizzazione con vitamina k.  Il dlin dell’ascensore fu automaticamente accompagnato dall’apertura della porta scorrevole.
Quando entro in ascensore per prima cosa fisso lo specchio e mi guardo gli occhi. Mi piace vederli sotto la luce, spicca il nocciola contornato di nero dell’iride . Anche quella volta l’avevo fatto, ma puntando dritto allo specchio avevo scorto un movimento al piano del pavimento. Due scarafaggi a zampa lunga s’arrampicavano su un pezzo di pane lasciato cadere distrattamente in ascensore. La porta si era chiusa nello stesso tempo in cui non avevo potuto trattenere un urlo di orrore. Il raccapriccio fu tale da bloccarmi ogni fil di fiato per tutta la salita fino al quarto piano. Guardavo quelle bestie contorcersi avide sul pane e la patina di sudore freddo che mi avvolgeva sembrava nascere dalle isteriche pulsazioni del mio stomaco. Mentre muta ed immersa nel silenzio guardavo in direzione della porta, sentii altre urla provenire dal pianerottolo di casa mia. All’apertura della porta dell’ascensore mi corse incontro una donna, sudata emaleodorante, che gridava aiuto. Subito si alzò un vocio concitato dei vicini, che andava a confondersi col suo pianto. La donna stava per partorire ed implorava chiunque di soccorrerla. Yugo, lo sharpei albino del ciccione, s’era messo ad abbaiare sicché lo stesso ciccione era uscito in mutande con una coscia di pollo in mano, urlando di finirla. La donna mi si era quasi accasciata addosso toccandosi la pancia e dicendomi che stava per aprirsi. Il dolore la faceva ripiegare su se stessa, mentre il ciccione addentava il pollo unto e continuava ad inveire. Ci fu subito dopo un fondersi di lamenti e strilli da ogni parte a cui seguì un gemito sordo della donna e la perdita del suo liquido amniotico. Gli occhi del ciccione si spalancarono e d’un tratto sputò il boccone di pollo sugli scalini, accasciandosi anch’egli e vomitando per il disgusto. Qualcuno in quel momento avrebbe dovuto riprendere e portare via Yugo dalla mistura che si ostinava a leccare con golosità. Chissà se il giorno dopo qualcuno avrebbe mai ripulito il tutto.

Svenni.


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