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6-6-6 the review of the Beast #1

Creato il 17 dicembre 2014 da Cicciorusso

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Nessuna nuova rubrica tematica, nessun ulteriore approfondimento sugli Iron Maiden. Il titolo sta solo a indicare che con questa prima ammucchiata di sei inizia un brevissimo ciclo di micro recensioni finalizzate a fare un po’ di pulizia tra le pile di ciddí accumulate fino ad ora e comunicare le nostre immancabili perle di saggezza non richieste in merito alle uscite discografiche di questi ultimi mesi che, per un motivo o per l’altro, abbiamo bellamente ignorato. Cominciamo dai nomi più blasonati.

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GRAVE DIGGER – Return of the Reaper (Napalm)

Il primo Mistero del Metallo fa più o meno così: come diavolo riescono i Grave Digger a tirare fuori un disco nuovo ogni due anni? La risposta potrebbe essere semplice e scontata: accozzagliando scarti di vecchie registrazioni insieme a qualche nuovo pezzo, mischiando tutto nel panariello della Tombola e quello che esce esce. Personalmente faccio fatica a seguirli sempre e in modo puntuale, però questo Return of the Reaper, o almeno la metà di esso, alla fine, si fa anche ascoltare con un discreto piacere. Il problema, dopo un po’, resta lo stesso: noia a pacchi. Ciò non toglie che, se dovessi trovarmeli in qualche festival, starei ugualmente davanti alle transenne a sgomitare e fare le cornine.

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OPETH – Pale Communion (Roadrunner)

Il secondo Mistero del Metallo riguarda ‘l’inspiegabile carriera degli Opeth‘. Ignorati praticamente per anni, li ritrovai inaspettatamente molto gradevoli con Heritage, disco di prog rock coerente e suonato da dio. Con Pale Communion, invece, hanno tirato troppo la corda. Qui ci divertiamo ad insultare gli Opeth dicendo che fanno musica da kebabbari, il che è vero fino a un certo punto, ma la cosa che più mi infastidisce di questo disco e, in generale, della piega che sta prendendo ‘l’inspiegabile carriera degli Opeth’, è che, tra rimandi e citazioni, si sono ridotti a uno scimmiottare i grandi della musica prog britannica e italiana (vedi il pezzo non a caso intitolato Goblin), facendo passare il tutto come un’operazione culturale. Sono diventati un po’ i Tarantino del metal, con la differenza che non mi fanno ridere.

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RIOT V – Unleash the Fire (Avalon)

Chi conosce l’intera discografia dei Riot? Dico sul serio. Non ne abbiamo mai parlato su questi schermi, neanche, se ricordo bene, in una puntata di Fartwork. Ed è tutto dire, essendo loro tra gli autori delle peggiori e più imbarazzanti copertine della storia del metal, ma anche di alcuni pezzi di grandissima storia del metal. Non avrei neanche voluto ascoltarlo Unleash the Fire dopo la morte di Mark Reale. Forse avrebbero fatto bene a mettere un punto a questa storia. Loro invece sono andati avanti e io sono riuscito anche ad apprezzarli parecchio, nel merito di ciò che n’è venuto fuori. Vedete voi se vi va di fare altrettanto. La cosa però lascia un sapore amaro, siete avvertiti.

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ALLEN-LANDE – The Great Divide (Frontiers)

Il quarto disco di questi due signori mi sta dando il tormento, quasi ai livelli di Unbreakable. Sinceramente non è manco il più bello di tutta la produzione, però contiene una serie di singoloni da febbre del sabato sera che starebbero bene pure su Virgin Radio. Oddio, ora che ci penso, non potevo inventare un insulto peggiore. Non era mia intenzione. Resta il fatto che il disco è gigione dall’inizio alla fine, zuccheroso e piacione come solo Timo Tolkki sa essere quando ci si mette (toccando vette inarrivabili come Come and Dream With Me e Solid Ground). Sì, perché la premessa doveva essere questa: se n’è andato Magnus Karlsson e al suo posto è arrivato Ciccio Bello. Che vi devo di’, a me me piace. Poi, vabbé, per me Allen potrebbe cantare pure le Pagine Gialle… Disco di super cazzeggio dell’anno.

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FALLS OF RAUROS – Believe in No Coming Shore (Bindrune)

Provenienti da Portland, non quella dell’Oregon, ma l’omonima città del Maine, praticamente dall’altro lato dell’America, i Falls of Rauros sono quattro tizi che pensano sia ancora il caso di tenere in vita un sottogenere la cui vena, francamente, sembra sia esaurita. Epigoni, dunque, dei più famosi colleghi del nord-ovest, gli Agalloch, e posizionati a metà classifica tra quelle realtà più (Skagos, Alda, Gallowbraid) o meno (Fauna, Ash Borer, Addaura) interessanti, con questo nuovo album mi confermano anche il loro scivolamento verso l’appiattimento e l’inesistenza di un nuovo slancio creativo, in coerenza con l’andamento generale del black metal cascadico. Tanto finirà tutto nell’hipsterismo più becero, statene certi. O forse è già accaduto.

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WOLVES IN THE THRONE ROOM – Celestite (Artemisia)

La Celestite, dovete sapere, è una brutta malattia che colpisce gli uomini. Solitamente attacca la sacca scrotale provocando stiramenti, noti anche come sfilacciamenti o, che dir si voglia, stracciamenti della stessa. La precedente produzione black metal è sempre stata difesa a spada tratta da un sacco di gente (anche da chi non ha nulla a che fare col nostro piccolo mondo antico). Ma essa segue vie per me abbastanza oscure. Riusciranno a dire che questo è l’ennesimo capolavoro dei WITTR anche adesso che hanno fatto praticamente una colonna sonora space-ambient per il documentario sulla sonda Rosetta che atterra sul meteorite 67P/Churyumov-Gerasimenko? (Charles)

(to be continued…)



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