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60 anni Rai, Bernardini: un vero progetto educativo (L'Eco di Bergamo)
Creato il 03 gennaio 2014 da Nicoladki @NicolaRaianoIl 3 gennaio 1954 inizia la rivoluzione televisiva in Italia: quanto se ne era consapevoli, secondo lei?«Non credo che ci fosse coscienza di quale cambiamento epocale la tv avrebbe innescato. La televisione era ai primordi, ovunque. Credo sia più fecondo mettere l’accento su un altro aspetto invece: il contesto storico in cui la tv nacque in Italia e in Europa».
Era l’Italia della ricostruzione, alla vigilia del boom.«Ed è l’istituzione pubblica a farsi carico del nuovo mezzo, come in tutta Europa: si sceglie non il modello statunitense, basato sull’iniziativa privata e la tv commerciale, ma il modello inglese della Bbc».
Pesò più l’eredità della guerra o la minorità della cultura liberale in Italia?«Le dittature avevano usato la radio come strumento di propaganda. E in Italia i giornali sono sempre stati l’emanazione o dei partiti o dei grandi gruppi industriali: in questo contesto la tv nasce pubblica come garanzia di pluralismo e democrazia. Anzi, come strumento di educazione democratica: fu un progetto nato in seno alla cultura cattolico-democratica, ma rivolto a tutta la società».
La tv del monopolio era pedagogica.«La Dc al governo vide la tv come strumento di partecipazione e crescita del Paese intero, prima che come mezzo di consenso. Quella Rai non doveva solo educare divertendo, ma raccogliere e dare il meglio».
Per questo la ricordiamo come una sorta di «età dell’oro» televisiva?«Ci lavoravano scrittori come Gadda, autori teatrali come Sergio Pugliese, i giovani Umberto Eco e Andrea Camilleri. La Rai raccolse - e spesso per concorso - il meglio delle idee, del giornalismo e dello spettacolo. Vennero così gli anni della direzione di Ettore Bernabei, i migliori: programmi come “I figli di Medea”, “Maigret”, “Studio Uno” di Falqui o il “Jekyll” con Albertazzi stupiscono ancora oggi. C’erano ricerca, sperimentazione, voglia di modernità, investimenti».
Tutto questo cambia negli anni ’70, con la rottura del monopolio e la riforma.«Il monopolio cade davvero negli anni ’80, quando Berlusconi crea un polo privato in grado di competere e, soprattutto, spezza il monopolio pubblicitario della Rai, liberando energie nuove. Negli anni ’70 la riforma porta la Rai sotto il controllo del Parlamento e, in nome del pluralismo, articola l’offerta in più canali: ciò apre nuovi percorsi creativi, come la prima Rai 2 e, poi, la Rai 3 di Guglielmi, ma dà anche il via a una lottizzazione che soffoca energie e novità».
Cosa resta di quel progetto iniziale?«La Rai perde la propria identità quando insegue la tv commerciale rinunciando al proprio ruolo. Per anni ci si è riempiti la bocca con il servizio pubblico, fino a svuotarne ogni senso. Oggi la tv tematica recupera spazio per una tv che non insegue l’auditel, ed esiste una dirigenza Rai che torna a riflettere sul servizio pubblico. Manca l’opinione pubblica, però».
Che intende dire?«Quel vecchio progetto – raccogliere il meglio di un Paese e sostenerne la crescita – è l’unico che può legittimare una tv pubblica. E qualcosa oggi si vede: pensi a canali come Rai 5 o Rai Storia. Ma l’opinione pubblica non sembra cogliere questi sforzi, anche per colpa di noi giornalisti. Così si rischia di perdere un’occasione».
Pier Giorgio Nosariper "L'Eco di Bergamo"
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