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68° Festival del Film Locarno: resoconti personali

Creato il 16 agosto 2015 da Frankviso
68° Festival del Film Locarno: resoconti personaliPer chi non se la sentisse di leggere fino in fondo (cosa del tutto giustificabile) può saltare direttamente in appendice al post, per consultare l'elenco dei film in crescente ordine di preferenza.
Di ritorno anche quest'anno, per il terzo consecutivo, dal consueto viaggio locarnese che ha visto il sottoscritto immerso nelle proiezioni festivaliere per quattro giorni, vediamo di stendere alcune impressioni al volo su quanto riuscito a visionare durante questa sessantottesima edizione che, ad ogni anno, sembra purtroppo risentire gradualmente degli influssi commerciali dettati dalla popolarità dei festival maggiori.

Fortunatamente, però, in mezzo a un calderone di pellicole deludenti e poco (o per niente) convincenti, ogni giornata è comunque riuscita a concedere lo spazio per almeno un ottimo film, nonchè, due opere immense e dall'impatto immediato, sulle quali un giudizio favorevole si è riversato fin dal primo istante in modo irrevocabile. Per il resto, questi due giorni che separano il ritorno dal festival sono decisamente serviti ad introiettare al meglio tutti i lavori fruiti, sia riconfermandone le impressioni iniziali per certi, che rivalutandone (seppur di poco) l'importanza preferenziale per altri. Ma procedendo con ordine, direi di togliere subito il dente doglioso facendo un bel fascio rovente di quei film distanti anni luce dallo stile di cinema che il sottoscritto ama e che il blog intende rappresentare, e che in questa personale graduatoria si riservano irreparabilmente le ultime, scomode poltrone; cose assolutamente inguardabili come il francese Deux Rèmi, deux (languido adattamento di un romanzo di Dostoevskij sul tema del doppio) tra i lungometraggi e, in ordine di fruizione: L'invisible (documentario dall'evidente impostazione televisiva composto da estratti di repertorio sul cinema di Choux, Cocteau e Godard; per carità, stimabile come progetto ma evitabilissimo e totalmente ininfluente, a modesto parere, in un contesto festivaliero), Ein Ort wie dieser (altro documentario, esageratamente videoclippato e incentrato sulle rivolte all'interno del Sedel, a Lucerna), Maria do Mar (commedia portoghese a sfondo sentimentale, talmente smancerosa da infliggerti il vero colpo di grazia nell'istante in cui, sull'uscio di una casa di montagna, fa la sua apparizione un'idiota travestito da gremlin!) e L'Architecte de Saint-Gaudens (irritante musical coreografico francese, senz'ombra di dubbio il peggiore, assieme al succitato film di Pierre Lèon, con il quale faceva doppia proiezione) tra i corti. Sempre all'interno di questa categoria (la sezione Pardi di domani), la sorpresa migliore arriva invece dalle Filippine; Sa pagitan ng pagdalaw at paglimot (The Ebb of Forgetting) è infatti il debutto del giovane Liryc Dela Cruz, già produttore per Lav Diaz, del quale ne ripropone in maniera palese i tratti stilistici (solamente graffiati da un tocco più onirico), a partire da una steppa desolata e monocromatica che vede il vagabondare di una donna in stato confusionale - sembra quasi di riassistere all'ultima ora di Century of Birthing - alla ricerca della propria sorella finchè, un cielo nuvoloso non scinde immagine e tempo, sogni e ricordi, spostando l'azione a bordo di un aereo di linea. Ottimo lavoro, ma stritolato in un metraggio che purtroppo non ne favorisce la completa carica espressiva, per il buon Liryc quindi, non resta che sperare al più presto nella prova di un lungometraggio. A seguire positivamente: La rivière sous la langue, della ginevrina Carmen Jaquier (già premiata nel 2011 con un Pardino d’argento per l'ancora invisto Le tombeau des filles), interessante dissezione della personalità femminile attraverso gli intimi turbamenti all'interno di un piccolo nucleo famigliare (una madre e le sue due figlie), riaffiorati a stretto contatto con la Natura, dopo la scoperta di un diario. E per concludere questa sezione dei corti, il brasiliano O Teto Sobre Nós; opera oscura e claustrofobica (a tratti quasi apocalittica) incentrata su un gruppo di abusivi occupanti un edificio abbandonato e prossimi allo sfratto, ma che ammetto, probabilmente non ho colto in profondità poichè, nonostante l'ottima realizzazione (e un finale al cardiopalma), non è riuscito a sorprendermi più di tanto.
68° Festival del Film Locarno: resoconti personali1) Deux Rémi, deux | 2) Ein Ort wie dieser | 3) Maria do Mar | 4) L'Architecte de Saint-GaudensChiusa questa prima parentesi, concentriamoci ora sui pezzi grossi (i film del Concorso internazionale e gli immancabili Cineasti del presente), ma prima di soffermarci sull'opera più naufragante del festival, due segnalazioni veloci tra i film che si potevano anche evitare: Siembra, opera prima della coppia Rojas/Álvarez, che poggia sull'impeto scaturito dalla musica e dalla tradizione folkloristica dell'entroterra colombiano per tratteggiare la storia di Turco, un pescatore arrivato dalla Costa del Pacifico, alla sconfortante ricerca di un luogo per dare sepoltura al figlio Yosner, e cercare di ricostruire così le proprie radici in una nuova terra, lontana da quella desiderata. Idea allettevole sulla carta, ma che si perde in una stesura tediosa dove i rituali danzanti occupano lo spazio maggiore, e i frangenti più interessanti vengono relegati solamente agli ultimi minuti. Alquanto soporifero, è anche il cargo protagonista di Dead Slow Ahead; imponente documentario marino immaginato come un apologo fantascientifico dove un'umanità (in)visibile è oramai divorata dal progresso industriale. Contemplazione di una meccanicità in estenuante movimento che a tratti potrebbe anche ricordare il Weerasethakul di Syndromes and a Century, ma di fatto, il film di Mauro Herce non eccede (se non per alcuni esterni dal fascino pittorico, seguiti da lunghe carrellate orizzontali), finendo semmai per inabissarsi assieme ai suoi impercettibili naviganti in quell'oceano/spazio che lo vede unico ingranaggio mobile. Parlando di sommersioni, arriviamo alla nota più dolente. Si, perchè proprio l'atteso Chevalier, della oramai consolidata Athina Rachel Tsangari, si è rivelata personalmente la più grossa delusione del festival, incapsulando (per usare un termine strettamente legato alla folgorante e al contempo antitetica/estetica opera precedente della regista, The Capsule) sei uomini a bordo di un lussuoso yatch attraccato sulle coste del mar Egeo, impegnati in un bizzarro gioco di paragoni e privo di regole precise, se non allo scopo d'instaurare una rivalità reciproca, finendo per portare a galla ansie e complessi in ognuno di loro. Un film che in definitiva (ri)svela il solito giochino di emulazioni marcate e rimarcate dall'ingegnosa (ai tempi) new-wave ellenica (qui, oltretutto privata totalmente dell'originalità di quell'estetica accorpante) e che ad oggi, non aggiunge nulla di nuovo al suddetto stile, ma che al contrario, sembra decretarne irrimediabilmente il naufragio, (ri)calcando gli ultimi passi del connazionale Lanthimos (penso al per nulla promettente The Lobster), verso la rassicurante culla dell'industria americana. La cosa migliore di Chevalier resta quindi il manifesto, ritraente un timone con dei membri in erezione al posto delle manopole. Particolarità, che sembra piacere ai selezionatori di questa edizione dato che anche nell'israeliano Tikkun (leggo ora, che si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria), il religioso protagonista Haim-Aaron, confratello della setta chassidica di Gur (uno dei più radicali movimenti ebraici ortodossi) finisce in coma apparente per un incidente causato in qualmodo dall'osservazione del suo pene durante una "imprevedibile" erezione. Detto così sembra alquanto grottesco, ma il film di Avishai Sivan è in realtà un profondissimo viaggio di conversione interiore; dalle prime manifestazioni del disagio alla conflittuale ricerca del desiderio, fino alla scoperta (rivelata in un epilogo visionario e avvolto in una nebbia estetizzante, che materializza di colpo l'esplicita visione courbetiana de l'origine du monde) di quel mondo da lui ancora inesplorato e dal quale, era finora rimasto protetto. Indubitatamente uno dei migliori film del festival e che, nella sua esplorazione di una sessualità per certi aspetti perturbata se la gioca (anche nella personale graduatoria) con Dark in the White Light (Sulanga gini aran) dell'interessante regista nativo dello Sri Lanka Vimukthi Jayasundara; opera dall'inizializzazione corale dove, tra la contemplativa ricerca di risposte sulla spiritualità di un monaco buddista, i loschi affari di un trafficante d'organi e le personali possibilità testate da un aspirante medico, la parte del villain finisce per ricadere (focalizzando così gran parte del film) sulla subdola figura di un chirurgo dalla doppia attività/vita di "sanatore". Quasi una sorta di Le Gars dumontiano coabitante in un universo di corpi perduti al confine tra la vita e la morte (consiglio di leggervi l'ottima recensione di Cinepaxy, qui). Altre cose da segnalare prima dei due personali capolavori del festival; ovviamente, l'attesissima ultima fatica di Zulawski, che dopo un vuoto temporale di quindici anni riappare dietro la macchina da presa con Cosmos (Pardo per la miglior regia). Chiariamo subito, che aspettarsi un ritorno ai visionari e turbolenti eccessi del passato era alquanto improbabile (lo stesso regista ha dichiarato che certi film li si potevano realizzare a trent'anni, oggi c'è più spensieratezza) però, le misteriose vicende che si susseguono all'interno dello stravagante e nevrotico microcosmo famigliare intessuto da Zulawski, coinvolgono, e l'impronta stilistica dell'autore, seppur venata da un'inaspettata ilarità di fondo, si riconosce all'istante. Il tempo ha comunque preservato quel suo ritmo schizofrenico; gli immancabili virtuosismi di camera; la capillare cura dei dettagli; i toni esuberanti e i colori, ora ravvivati alla luce di uno stile contemporaneo che, a tratti, sembra strizzare l'occhio al cinema di Xavier Dolan. Ugualmente avvalorata da un montaggio frenetico e assolutamente ingegnoso è invece la pellicola più sperimentale di questa edizione; The Forbidden Room, co-diretto insieme a Evan Johnson da un regista che il sottoscritto, in tutta onestà, non ha mai apprezzato particolarmente: Guy Maddin. L'esile filo tramistico (e pure questo, a suo modo corale) è un mero pretesto per la psichedelica sovrimpressione/fusione tra fotogrammi di repertorio, immagini intaccate da graffi e deterioramenti, e vignette rappresentative realizzate sugli storici stilemi del cinema muto; una perseveranza, nel cinema del canadese, che stavolta però si serve dei cromatismi per deflagrare in un'immagine che violenta l'occhio; un autentico inferno caleidoscopico dall'impatto visivo sicuramente magnetico, ma che visto il taglio formale, fruito nella sua durata di centotrenta minuti e passa, potrebbe anche risultare pesantuccio. Frammenti di innovazione stilistica anche nell'inafferrabile Lu bian ye can (Kaili Blues), del cinese Gan Bi, opera non indifferente sospesa tra tempo e soffuso onirismo, ma anche dalla costante incertezza estimativa, incentrata sul lungo viaggio in treno di un medico (ma quell'immagine dell'orologio che scandisce il tempo sovrimpressa sul finestrino, non si riesce proprio a guardare!), dove la nota veramente interessante è largita da un ipnotico piano sequenza di ben quaranta minuti durante il quale, la camera, segue ondivaga e avvolgente il movimento di alcuni personaggi mentre attraversano la falotica cittadina di Dangmai. Dalla Cina all'aspra catena montuosa dell'Atlante, in Marocco, per via proseguire attraverso un deserto assolato di fronte al quale, in sala, molti si sono arresi. L'ultimo seducente viaggio di Ben Rivers si riserva la seconda preferenza assoluta in questo personale bilancio. Girato come di consuetudine in un 16mm sgranato, The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, è forse l'opera più ambiziosa dell'artista/cineasta britannico; un docu-film, complesso, che prende le mosse da origini remote. Il titolo (fenomenale) infatti, venne origliato cinquant'anni fa da Paul Bowles all'interno di un bar, il quale finì per scrivere una storia su quella frase. È una frase che nel tempo diventa un'ossessione, spingendo Rivers ad intessere altri pensieri sul cinema, e su quanto oltre ci si possa spingere per realizzarlo; ed è la frase, che nell'incipt, il regista-protagonista (interpretato da Oliver Laxe, già autore di Y las chimeneas decidieron escapar) compita di fronte alla cinepresa di una troupe alle prese proprio con la realizzazione di un film. Finchè l'uomo abbandona misteriosamente il set, per inoltrarsi alla volta di un cammino interminabile e abissale, costellato da supplizi e follia che finiscono per oltrepassare i sostrati dell'illusione filmica. In definitiva, e in maniera del tutto embrionale, The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers lo si potrebbe definire come una sorta di deumanizzazione tsukamotoiana in salsa etnografica, sulla quale sarà assolutamente opportuno tornare, con un adeguato approfondimento. Il viaggio, e le sue distanze temporali, sono sempre stati una costante anche nel cinema più avanguardista della veterana Chantal Akerman, che a quarant'anni esatti dal suo acclamato capolavoro (Jeanne Dielman. 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles), rinverdisce i fasti del passato. Il suo toccante documentario No Home Movie (vergognosamente sottovalutato dalla giuria), è infatti l'opera favorita dal sottoscritto; una mirabile testimonianza d'amore e un'intima riflessione sul tempo che scorre, che inevitabilmente ci separa dalle persone più care, come può esserla una madre, ma che al contempo (grazie alla tecnologia) ne analizza le possibilità per accorciarne le distanze. Per chi non ne fosse a conoscenza, la madre della cineasta belga ora non c'è più ("È un film su mia madre; era arrivata in Belgio nel 1938, in fuga dalla Polonia, dalle atrocità e dai pogrom. Qui la vediamo solo nel suo appartamento. Un film sul mondo che cambia e che mia madre non vede") e questa perdita, non può che riflettersi con tutta la sua disperata forza su quell'arbusto decadente scosso dalla violenza del vento a inizio film. Come non cogliere la profondità di tale immagine, se non altro, dopo aver assistito per centodieci minuti all'intenso rapporto che per una vita intera ha legato due persone svelandone abitudini, ricordi, emozioni. Le giuste parole per un'opera d'immenso calibro come questa non possono trovare qui, ed ora, in postilla a questi resoconti, lo spazio più idoneo. Al momento, mi permetto però di concludere pronunciandomi che trovo alquanto refrattario, sentire/leggere (ancora ad oggi, specialmente di questi tempi), probabili interrogativi sul perchè la camera fissa inquadra per un determinato lasso di tempo una stanza completamente vuota, o le sabbiose lande di un deserto (materiale oltretutto filmato per la videoinstallazione Now - e già il titolo dovrebbe far riflettere). Ma d'altronde è appurato; per uno che apprezza (e magari coglie, nella sensibilità dell'autore), c'è ne saranno sempre cinquanta che alla vista di un albero spoglio abbandonano la sala, preferendo magari riunirsi ai banchetti celebrativi delle star e starlette di turno.
Bon voyage!

15) Deux Rémi, deux (Pierre Léon) | L'Architecte de Saint-Gaudens (
Julie Desprairies, Serge Bozon) | Ein Ort wie dieser (Philip Meyer) | Maria do Mar (
João Rosas) 14) L'invisible
Fabrice Aragno
Svizzera, 2015 | 30 minuti68° Festival del Film Locarno: resoconti personali 
13) Chevalier
Athina Rachel Tsangari
Grecia, 2015 | 99 minuti
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12) Siembra
Ángela Osorio Rojas, Santiago Lozano Álvarez
Colombia, Germania, 2015 | 80 minuti
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11) O Teto Sobre Nós
Bruno Carboni
Brasile, 2015 | 22 minuti
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10) Dead Slow Ahead
Mauro Herce
Spagna, Francia, 2015 | 74 minuti
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9) La rivière sous la langue
Carmen Jaquier
Svizzera, 2015 | 18 minuti
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8) Lu bian ye can (Kaili Blues)
Gan Bi
Cina, 2015 | 113 minuti
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7) Sa pagitan ng pagdalaw at paglimot (The Ebb of Forgetting)
Liryc Dela Cruz
Filippine, 2015 | 14 minuti
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6) The Forbidden Room
Guy Maddin, Evan Johnson
Canada, 2015 | 132 minuti
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5) Cosmos
Andrzej Zulawski
Francia, Portogallo, 2015 | 103 minuti (Pardo per la miglior regia)
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4) Dark in the White Light (Sulanga gini aran)
Vimukthi Jayasundara
Sri Lanka, 2015 | 82 minuti
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3) Tikkun
Avishai Sivan
Israele, 2015 | 120 minuti (Premio Speciale della Giuria)
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2) The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers
Ben Rivers
Uk, 2015 | 98 minuti
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1) No Home Movie
Chantal Akerman
Belgio, Francia, 2015 | 115 minuti
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