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Piacerà molto e a molti Les sept jours du talion (2010) firmato dal canadese Daniel Grou, e i motivi sono quasi nazional-popolari data la presenza di situazioni e personaggi che riportano a eventi reali sui quali tutti si sentono giudici: condanna per il pedofilo e pietà per l’innocente vittima. Giusto, giustissimo. Lo spunto di Grou fa però un passo avanti, e ci spiattella davanti che cosa accadrebbe se un famigliare ferito dalla morte del proprio caro mettesse fisicamente le mani sul carnefice, in pratica: se la giustizia istituzionale venisse soppiantata da quella personale, se la legge del tribunale fosse sostituita da quella del taglione.
Piacerà poi perché questo regista sceglie per la sua opera una traiettoria prettamente artistica che ha poco di esploitativo e molto di introspettivo. La finezza registica caratterizzata da andamenti fluttuanti stride con l’aggressiva impostazione tradizionale del torture-movie, genere al quale 7 Days, comunque, non appartiene tout court.
Eppure piacerà anche per il suo strizzare l’occhio a tale categoria proponendo una visione dei supplizi che sebbene filtrata dalla mano autoriale sa alzare il livello di ribrezzo spettatoriale grazie alla parsimonia del fuori campo che feconda l’immaginazione.
Infine potrà (subliminalmente) piacere per dei piccoli messaggi (/segnali anche di stile) disseminati nella pellicola, dai toni scarichi negli ambienti casalinghi illuminati dal nastrino rosa della bimba, passando per il cervo in progressiva decomposizione e accennando all’origine del disturbo dell’assassino nelle violenze subite dal padre (uff…), tanti indizi che comunque fanno una prova: il mondo è abominevole.
Per tutti questi motivi il film piacerà, ma è all’incirca per gli stessi motivi che l’opera potrà apparire derivativa alla luce delle innumerevoli pellicole che trattano il tema della vendetta.
Il meccanismo vendicativo ha una struttura talmente elementare che necessita di un palliativo in grado di rimpolpare la ritorsione perché se no c’è il rischio di scadere nel mero r&r anni ’70. Ovviamente non è questo il caso, ma è bene ricordare che ci sono state variazioni sul tema molto intriganti nel passato, senza andare a toccare i maestri coreani penso al recente Hard Candy (2005) o al bellissimo film di Agustí Villaronga In a Glass Cage (1987), opere che contengono altro in profondità aldilà del raccontato.
Di contro il lavoro di Grou si esaurisce nella sua esposizione, abbiamo un padre che vuole punire secondo il proprio libero arbitrio l’uomo che ha ucciso la sua piccola figlia, così la materia esaminata viene sfruttata solo in superficie e a poco serve il tentativo di appaiare con un parallelo telefonato la vicenda personale del poliziotto a quella del protagonista. E debole è anche la decisione di risucchiare nella vicenda la mamma di una delle vittime precedenti, la sua entrata in scena è abbastanza funzionale ma di certo non indispensabile.
Insomma non riesco a scorgere niente di particolarmente attraente dietro questo orrore, né un prevedibile ribaltamento dei ruoli [1] né lo spiffero di morale che arriva da una voce off (la nostra?) e che chiede al padre se la vendetta sia la soluzione giusta.
Sono sicuro che piacerà davvero tanto. Tenete a mente le mie parole, però; piccole gocce nell’oceano, ma l’oceano non è fatto di gocce?
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[1] Se si vuole approfondire l’argomento diventa indispensabile la visione di I Saw the Devil (2010), maestoso saggio cinematografico sul tema del rovesciamento figurativo.
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