7MML coinvolge professionisti dell’immagine e della comunicazione in un viaggio ispirato dal cuore e guidato dal desiderio di conoscere altre realtà, finalizzato all’aiuto umanitario, alla valorizzazione etica ed estetica del viaggiare consapevole, alla sensibilizzazione ecologica nei confronti dell’ambiente.
La prima fase del viaggio ha visto i partecipanti arrivare dall’Italia al Kazakistan, poi è stata la volta del viaggio fino ad Hong Kong. Ora, dopo un salto oceanico, una squadra tutta al femminile è partita dal Canada con l’intento di raggiungere il Panamá. Le offerte raccolte da questa tappa verranno destinate alla Casa delle Donne, associazione attiva nella lotta alla violenza contro le donne.
Acquista miglia e partecipa anche tu all’impegno di 7MML!
Dal diario di Alice Cristiano
7 ottobre
Messico. E arrivò anche il giorno del passaggio della frontiera. Baldanzose attraversiamo una terra di mezzo fatta di venditori di qualunque cosa, di capanne accatastate agli angoli della strada sovraccariche di vestiti, cibo, soldi messicani, orologi. E alla fine ci siamo. Arrivate al varco, passaporti, visti, permessi e documenti alla mano.
Noi sei veniamo sfrontierate senza tanti problemi e complimenti, poi arriva il loro momento, quello delle auto. Primo passaggio, disinfestazione. Con noi a bordo. Secondo passaggio, il timbro che ci lascia libere di folleggiare a bordo dei nostri mezzi sulle sconnesse strade del Guatemala.
Eravamo serene, sostenute dall’aver chiuso la prima parte dell’iter in tempo record e senza nemmeno un attacco di panico. E come spesso capita, è l’ottimismo che ti frega. Perché noi avevamo fatto i conti con tutto ma non con lui: l’Hitler della burocrazia transfrontaliera. Sorridiamo e facciamo passare i documenti attraverso la fessura dello sportello, ancora fiduciose. L’Hitler guarda, legge, scorre le carte. Fa no con la testa. Noi, dall’altra parte, bocca aperta e nessun suono.
“Non va bene”
“Come non va bene?”
“Manca una carta”
“Come manca una carta?”
“Non potete guidare in Guatemala”
“Come non possiamo guidare in Guatemala?”
E avanti così, botta e risposta, per due ore, forse tre. Lui, irremovibile. Noi, un continuo oscillare tra il panico e la disperazione. Secondo l’uomo di ferro dovevamo rimanere lì, nella terra di mezzo, fino alla fine dei nostri giorni. Sudate, affamate, appiccicate. E il tutto perché quella mattina aveva deciso di inventarsi una legge ad hoc contro le sei donne partite dall’Italia con l’ingenua idea di attraversare una parte del mondo. Tra cui la sua. Ad un certo punto Anna ha la trovata geniale. Suggerisce al guatemalteco di integrare a penna il documento.
“Te lo scrivo così bene che sembrerà stampato”, gli dice con la sicurezza di avergli fatto la classica proposta che non si può rifiutare..
Ma mentre lei si guadagna l’Oscar come attrice non protagonista (il protagonista è lui, ci mancherebbe), dall’altra parte del vetro nemmeno un barlume di umanità.
“Chiamate un notaio”, ci suggerisce, il genio.
“Non possiamo chiamare un notaio”, gli facciamo presente, ormai devastate.
“Allora non possiamo fare nulla. Tra l’altro tra mezz’ora il banco chiude.”
Sei teste si voltano di scatto verso la porta a fianco. Panico, adesso. Panico, quello vero. Se il burocrate visionario non ci avesse firmato le carte entro mezz’ora non avremmo potuto pagare l’ingresso dei mezzi. E saremmo rimaste lì, in quei duecento metri delimitati da sbarre, tra Messico e Guatemala. Fottute, e scusate il francesismo.
Un quarto d’ora di trattative. Troviamo un compromesso. Una carta inviata dall’Italia con timbro dell’associazione. Svegliamo nel cuore della notte il povero Giuliano, il capo branco, mentre distribuiamo formaggini e generi di prima necessità a tutto il personale di frontiera per distogliere l’attenzione dal piccolo inghippo. La mail, però, non arriva. Hitler sorride. Mancano tre minuti. Proviamo a girarci la mail tra tutti i nostri telefoni, a scaricarla con il cavo sul computer, a fare appello al cuore dell’impiegato senza cuore. E senza successo. Il banco, intanto, tira giù la serranda.
“Dategli un formaggino, comprategli un hamburger, offritegli la cena”, urla una di noi. Una specie di ultimo grido del condannato a morte.
Alla fine, aiutate dal dio delle frontiere, riusciamo a inviare la benedetta mail sul telefono della collega della iena. Lei la stampa, noi siamo libere. La gente, intorno, applaude. Il tizio del banco si è guadagnato una cena chiudendo con un’ora di ritardo. Hitler, che deve avere avuto in adolescenza una fidanzata italiana che l’ha trattato tanto tanto male, se ne va a casa distrutto dal dolore per non essere riuscito a rovinarci la vita, il fegato e il viaggio con un unico pezzo di carta. Saliamo in auto, salutiamo gli uomini della frontiera, regaliamo una cena a cinque stelle al salvatore del banco, morto di fame nell’attesa, ci allontaniamo da quel luogo di dolore e disperazione. Sulla strada troviamo un hotel, ceniamo con una papaya in sei, alle nove e mezza di sera siamo a letto. A dei livelli di tensione che nemmeno la finale Italia Germania.
Mentre vi scrivo è mattina e stiamo percorrendo le strade di questo paese talmente verde da far male agli occhi.
Stanche ma con una sensazione di trionfo nel cuore, la sensazione delle sopravvissute. Adesso, forse, è arrivato quel momento. Il momento del “Benvenuti in Guatemala”.
O almeno speriamo.
Leggi la puntata precedente: la cucina messicana