Girato all’età di cinquantasei anni in un ospedale in disuso nei pressi di Avignone, con 7p., cuis., s. de b., ... à saisir (1984) Agnès Varda esibisce un’intemperanza autoriale che nell’appena successivo Senza tetto né legge (1985) sarà totalmente annullata. Qui l’apertura con le parole fuori campo di un agente immobiliare che presenta ad un potenziale acquirente la grossa casa abbandonata, diventa nel giro di poco una manifestazione di cinema ectoplasmico sciolta totalmente in una pozione illogica e surreale. Tutto si sovrappone, il tempo si polverizza: prima e dopo coesistono, si fondono, disorientano per la loro coincidenza, per l’indeterminatezza che suggeriscono (gli anziani dell’ospizio che “infestano” le stanze della magione), e assurdamente (questo tempo) scorre, come in un racconto famigliare che rimbalza vent’anni dopo (i genitori invecchiano, i figli crescono). Si aprono porte in questa casa-cervello che penetrano nel sogno (la scritta sul vetro del bagno: rêve), nello spazio mentale dell’immobile che sembra accudire i ricordi di chi ha vissuto lì dentro, di chi ci dovrà vivere o di chi, probabilmente, non ci vivrà mai.
Talmente esteso da tangere i due estremi opposti, ovvero quello dell’insolenza artistica e quello della caparbietà (sempre artistica), il corto di Agnès Varda va comunque visto perché oggetto raro trasportato in territori d’avanguardia che a tutt’oggi necessitano di ulteriori esplorazioni, film che si dissocia dalla normalità in ogni fotogramma (ci sono manichini dagli occhi mobili, cucine ricoperte d’erba, e una sequenza – La sequenza – dove un’ottuagenaria nuda è circondata da pareti ricoperte di piume, il che mi ha ricordato lo Švankmajerdi Lunacy [2005], mica uno qualunque), rompicapo di neanche mezz’ora dove la spasmodica ricerca di un senso deve essere lasciata ai grigi individui che esigono delle risposte, voi al contrario lasciatevi assorbire da questo labirinto di specchi, forse, guardando attentamente, al suo interno potreste vedere qualcosa che assomiglia al vostro riflesso.