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Diario
Giovedì 24 aprile
7.53 Sveglia, col sole. Il telefono dichiara trentatré email e sessantadue messaggi chat non letti. Ricezione del sessantatreesimo, per un totale di novantasei messaggi che non leggerò nemmeno oggi. Buongiorno a Ottantadue, che è ancora a letto. Lui apre prima un occhio, poi un altro. Si gira verso il muro. Decide di restare a letto.
8.30 Dopo aver perso un estenuante tira-e-molla, vado da sola al bar per un caffè e una sfoglia riccia. Sempre molto buona, ma inizia a perdere il suo fascino iniziale: inizio a considerarla la “solita” colazione.
8.55 Parcheggio in vista della spiaggia, lascio in auto la busta col cornetto a portar via. Scendo e mi addentro in un’area di sosta pedonale, dove mi accorgo di una quantità esorbitante di giardinieri al lavoro sopra le aiuole, le siepi e gli alberi che contornano il lungomare. Mi osservano, continuano a lavorare, si fermano, parlottano, tornano al lavoro. Mi immergo nella lettura, seduta su un muretto. Dopo qualche tempo noto che i giardinieri si sono avvicinati. Mi guardo attorno, ci siamo solo io e loro. Decido di tornare frettolosamente in macchina mentre dedico un sospiro interiore al paradiso dal quale mi allontano.
9.36 Trovo Ottantadue in strada, sta andando di nuovo al cimitero. Ci salutiamo, proseguo per il residence.
9.38 Durante la manovra di parcheggio, due telefonate in sequenza. La prima la fa Gigi: stasera non c’è più bisogno di aiuto per cucinare, basta essere da lui alle otto. Richiamo subito e propongo a più riprese di portare vino o dolce, ottengo un sistematico rifiuto. Presentarsi affamati è l’unico requisito richiesto. Scendo e saluto un ennesimo giardiniere, anzianotto, rubizzo e tondeggiante, che tenta una conversazione: “Stiamo infiorando ’nu poco, giusto per abbellimento”. Gli sorrido graziosamente ma proseguo marziale nella mia traiettoria. È in arrivo la bella stagione, il caldo si fa pungente. Noto che in pochi giorni mi è diventato piacevole rientrare nell’appartamento in ombra.
10.41 Ottantadue torna dal cimitero, concitata conversazione. Quindi ci dirigiamo insieme in direzione della spiaggia, dove il sole forte è alternato dal vento a nuvole in movimento. Ottantadue si impegna a misurare la lunghezza della spiaggia in chilometri, basandosi su complesse triangolazioni tra la distanza presunta tra sé e il monte dalla cima più in vista e il punto da misurare. Mi addormento, Ottantadue mi risveglia subito. Sbuffo, ma dopo poco giochiamo a bocce con dei grossi sassi bianchi, finché non si rannuvola.
12.52 Pranzo al tavolino di un bar all’aperto: insalata e hot-dog con salse, patatine fritte e caffè. Nei tempi morti giochiamo a tris sulla tovaglia di carta, ben presto punteggiata dalle tracce dell’immancabile piovasco quotidiano.
15.48 Gelato: pistacchio e cioccolato, fragola e kiwi, senza panna. Ho rifiutato assaggi non richiesti.
16.15 Quarantacique minuti in auto sotto la pioggia per raggiungere un centro turistico non lontano. Appena fuori dall’area di influenza del golfo splende il sole. Passiamo, in sequenza, il Bar “La Vela”, il ristorante “Il Veliero” e l’albergo “Il Gabbiano” mentre nello specchio d’acqua davanti a noi gli stessi simboli trovano incarnazione in elementi reali. Un effetto didascalico che sconfina, secondo entrambi, nel kitsch.
17.00 Stazioniamo al porto del paese appena raggiunto, senza più voglia di visitare alcunché. Trascorriamo il tempo necessario a riprenderci dal mal d’auto dato dai tornanti, sdraiati su un prato ai piedi di casette dai colori pastello. Coi talloni lambiti dall’acqua, giacciamo contornati da vecchietti che si consultano in dialetto e deliziati dalle prove microfono effettuate su un palco montato nella piazzetta principale per i festeggiamenti del venticinque aprile. Dopo mezz’ora ripartiamo alla volta di Grottini.
18.30 Rientro in residence, preparazione per la cena.
20.00 Cena: Vino rosso. Impepata di cozze, spaghetti ai frutti di mare, pesci alla griglia, dolce pasquale fatto in casa, gelato. Parole, risate. Accetto, per una volta volentieri, una richiesta di amicizia su facebook da uno dei commensali. Ottantadue è presente in corpo e in spirito, ma non parla moltissimo, sembra concentrato su qualche ragionamento dei suoi.
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A metà mattinata, con l’abitacolo che profumava tutto di cornetto appena sfornato, dalla strada principale ho impegnato la curva della traversa che porta al residence e mi sono ritrovata davanti Ottantadue, di spalle, così in mezzo alla via, che se non fossi un tipo prudente alla guida l’avrei messo sicuramente sotto. Ho rallentato, lui si è fatto di lato senza guardare. Mi sono affiancata a passo d’uomo, qualcosa non andava.
Sembrava arrabbiato, prendeva a calci il terreno sollevando nuvole di polvere. Mi arrivava un mugolio stridulo, ho abbassato di più il finestrino, era proprio lui l’origine. Stava piangendo.
Siamo entrati insieme nell’area di parcheggio, ho spento il motore e sono scesa, indecisa se correre ad abbracciarlo. Era quello che avrei voluto fare, ma non ero sicura che fosse consentito dal suo codice comportamentale, in momenti come quello.
Dietro mia domanda diretta mi ha spiegato che, dopo la visita alla tomba della donna ultracentenaria, un altro uomo, suppergiù della sua stessa età, si è dato da fare ripulendo tutto, lapide e dintorni, e sostituendo i fiori che Ottantadue aveva raccolto al bordo della strada (papaveri, margheritine, certi grappoli violetti, perfino due piccoli girasoli ammaccati) con certi mazzolini tronfi che puzzavano delle misture coi quali li impestano di solito i fiorai.
Ma l’onta peggiore l’aveva subita dalla conversazione silenziosa che si era svolta tra l’uomo e la donna che giaceva tre metri più in basso. Non aveva udito parole, non avrebbe potuto dal suo posto d’osservazione, nascosto dietro lo spigolo della tomba della famiglia Motta – mi chiese se la ricordavo (e come no: “Pensa, questa famiglia qui… è tutta Motta!” Mi aveva fatto ridere appena quarantott’ore prima). Ottantadue però era sicuro di aver colto un notevole grado di intimità tra i due. Sentendosi tradito, si era allontanato covando un risentimento che non sapeva bene come spiegare o tantomeno sfogare.
“Non fa niente”, l’ho rincuorato. Si è fatto prendere docilmente dal gomito e convincere a venire con me in spiaggia. Camminando gli ho offerto il cornetto che avevo comprato per lui. Ha smesso di tirare su col naso e l’ha mangiato in due bocconi. Un paio di passi e ha rotto il silenzio con una voce completamente trasformata:
- Senti come canta questa rana, o sarà un rospo?
- Non è un rospo, né una sola rana, è un’invasione di rane, non ti sei accorto che gracidano di continuo, giorno e notte, ovunque?
Non se n’era accorto prima, ma quella scoperta adesso occupava tutto il campo delle sue riflessioni. E allora, senz’altro, andava bene così.
[Continua]