9) Racconto: Cuore tenero

Da Angivisal84

Cuore tenerodi Erika Berselli Creatura: ChangelingHames era convinto di essersi appena svegliato da un brutto sogno, nonostante fosse già alla seconda ronda del suo turno serale. Gliel'avessero chiesto, sarebbe stato pronto a giurare che le urla e le immagini che gli vorticavano in testa fossero solo i lasciti di un incubo ancora vivido dal risveglio, non gli avvenimenti di nemmeno dieci minuti prima. E il problema era che continuava a pensarci.
Aveva appena varcato la soglia della baita quella sera, quando di punto in bianco si era visto collassare davanti il collega per uno dei soliti attacchi di panico. Non erano una novità per nessuno, Jason ne soffriva da anni, ma stavolta il povero ragazzo aveva incassato il colpo meno bene del solito e lui non aveva potuto far nulla di utile.
Hames era giovane, di larghe vedute, ma l'avvenimento l'aveva comunque stordito lasciandogli addosso una brutta sensazione: fare la guardia forestale lo aiutava a stare a contatto con la realtà e, oltre ad essere un piacere, lo spingeva a prendere il meglio della vita di tutti i giorni. I momenti in cui lui e Jason se la spassavano, ad esempio.
Il suo lavoro era una passione di bambino, una vecchia fiamma mai abbandonata. Aveva studiato da contabile, ma alla fine si era ritrovato a fare il cassiere pur di non stare rinchiuso in quattro mura tra signore di mezz'età e ragionieri sudaticci; la vita al chiuso non faceva per lui. Quando aveva avuto l'occasione di realizzarsi, l'aveva presa al volo sebbene i suoi genitori e perfino la sua ragazza fossero contrari. Non aveva rinunciato a prendersi le proprie soddisfazioni e non aveva ceduto per amore di una che alla fine gli aveva imposto "o il lavoro o me", e nonostante il dispiacere iniziale e lo stipendio basso, era tutto sommato felice.
Ripensava ancora all'amico mentre camminava tra i rami, in mezzo al fogliame umido. L'aveva spedito a casa a riposare e aveva avvertito il fidanzato, perché quella zucca dura si rifiutava di fare malattia e l'azienda statale che li aveva assunti non si degnava di dare ferie che fossero tali. Fortunatamente, Hames poteva coprirlo il più delle volte e non gli spiaceva fare gli straordinari.
Il loro compito non era niente di speciale, escludendo il conoscere diversi chilometri quadrati di terreno. Generalmente si trattava di mettere agli arresti cacciatori di frodo senza permessi e taglialegna abusivi, ma in casi particolari il lavoro avrebbe previsto di peggio: era una fortuna che la zona fosse tranquilla, altrimenti avrebbero dovuto controllare le tabelle di registrazione o indicare alla polizia edificazioni ante-guerra e grotte naturali in cui qualcuno avrebbe potuto trovare riparo ad ogni sparizione nel raggio di cento chilometri.
A settembre inoltrato l'aria si era riempita di colori e odori d'umido e muschio. Hames era a metà del secondo giro, faceva sempre la ronda più volte quand'era nervoso. Tuttavia, l'autunno era di gran lunga la stagione in cui preferiva evitare di dilungarsi, specialmente in serata: aveva sempre la sensazione che i larghi rami e il terriccio fangoso potessero ingoiarlo in qualsiasi momento, o che nascondessero segreti di cui era meglio non sapere. Si trovava a disagio come un bambino al buio.
Strinse la torcia tra le mani e la accese, guardandosi attorno; stava calando la sera e col cambio alle otto avrebbe potuto andarsene solo l'ora successiva. Sentì dei rumori, perlopiù scricchiolii, ma niente di allarmante. Proseguì tranquillo.
Inoltrandosi tra gli alberi, gli sembrò di sentire da lontano un rumore di vetri rotti. Si mise a correre agitando la torcia in direzione della fonte del rumore, ma dopo pochi metri inciampò in un ramo e quando se ne liberò, non trovò niente.
Poteva essersi sbagliato? Eppure era convinto che il rumore di un albero che cade non fosse quello di una bottiglia infranta. Andò avanti per controllare meglio e stavolta, Hames giurò di aver sentito qualcuno fargli lo sgambetto.
Cadde a terra e, indispettito, si voltò a cercare chi fosse stato: dai lamenti soffocati credette di aver individuato un intruso, ma invece nel raggio della torcia entrò soltanto una giovane ragazza sporca e spaventata.  Solo un'adolescente.
«Signorina?» A Hames non era mai capitato di trovare qualcuno che si fosse perso nel bosco. Non sapeva come comportarsi, per cui cercò di non allarmarla.
«Non le voglio fare del male, signorina. Mi creda.» Lei si ritrasse dalla luce ansimando. Doveva portarla al sicuro, e presto. Osservandola meglio, notò aveva qualcosa a spalle, probabilmente uno zainetto che poteva contenere dei documenti o altro di utile.
«Ha dei documenti? Mi può far vedere il suo zaino, per favore?» Non ricevette risposta. «Ascolti, ora mi avvicino... con calma. Vorrei solo dare uno sguardo allo zaino. Solo quello.»
Si avvicinò e fece per prenderlo, e in un primo momento non capì cosa stava toccando. Qualche secondo dopo sentì qualcosa afferrarlo sulla schiena femminile e fece un balzo indietro, puntandole contro la luce.
«Ra-gno.»
La ragazza fece ciondolare la testa, la vocina sottile da bambola rotta. Hames venne colto di sorpresa e, puntandole addosso la torcia, inorridì improvvisamente: quelle che aveva creduto essere delle cinghie strette attorno al busto femminile sembravano, anzi, erano zampe di ragno. Allibito, si chiese se esistevano insetti così grandi.
«Ommioddio» fu la sua risposta, precipitandosi verso la giovane per toglierle quella schifezza dalla schiena. Ma nel mentre, urtò qualcosa col piede e si fermò, e così comprese che a fargli lo sgambetto non era stata la ragazza, bensì un cadavere che giaceva supino a terra, ricoperto da frammenti di vetro. Si corresse, provenivano da uno specchio.
Si fermò ad osservarlo col cuore in gola, vedendo le grandi zampe bianche dello stesso parassita che gli si allargavano sulla schiena.
La prima reazione fu quella di indietreggiare, ma Hames si trattenne. Si ripeté fermamente che non era in un film di Alien e disgustato si abbassò piano sul corpo, sollevando l'estremità di una zampa pelosa col manico della torcia, attento che niente gli saltasse in groppa. Non gli piacevano gli insetti, ancor meno quelli grossi; da quel poco che vide però riuscì a convincersi non c'era pericolo. Non si trattava di un insetto attaccato al corpo; a quanto pareva le zampe si ricollegavano alla spina dorsale del ragazzo e quasi senza ombra di dubbio gli fungevano da arti supplementari.
Girò il cadavere, facendo attenzione a non inquinare una possibile scena del crimine. Il poveretto aveva dei terribili tagli su tutto il busto ed enormi ematomi lividi, ma non era stato quello, bensì il collo rotto la causa della morte. Stava quasi per tornare alla ragazza, ancora inchiodata dov'era, quando dandogli un'ultima occhiata intravide un particolare sulla fronte.
Scostò i capelli argentei, trattenendo il fiato. Era un occhio semi-aperto in verticale, non una ferita come aveva creduto: c'erano la pupilla, l'iride, la sclera e perfino un dotto lacrimare, praticamente tutto.
Inspirò a bocca aperta, stordito, ed espirò cercando di non svenire, pensando alle vecchie storie dei nonni irlandesi. Era stato cresciuto a suon di pane e favole su fate cattive che rubavano dalla culla i bambini, ma non riusciva a credere ci fosse qualcosa di vero in quei racconti. Scosse la testa cercando di ritrovare la calma. Doveva restare obbiettivo e non perdersi in fantasticherie.
Prese il cellulare per digitare il numero delle emergenze, ma prima di poter chiamare si fermò. Sentì la ragazzina singhiozzare e questo gli sembrò molto più importante della chiamata.
«È un tuo amico?» chiese. Lei annuì, continuando a piangere, stringendosi nelle braccia.
Hames si chiese se poteva davvero chiamare la polizia. Aveva due specie di ibridi, due persone-ragno di cui uno morto accanto a lui e una viva poco distante, spaventata, e far intervenire le forze dell'ordine avrebbe scatenato il finimondo o peggio. La voce della ragione tentò di illuderlo sul fatto potessero essere pericolosi, ma non riusciva a pensarla a quel modo davanti ad una diciassettenne in lacrime.
Si avvicinò alla giovane con gentilezza, troppo shockata per scostarsi di nuovo. Si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle.
«Ascolta...» Il suo tono tranquillo riuscì a calmarla un po'. Era pallida e scheletrica, decisamente malnutrita. «Sai dirmi cosa vi è successo?»
La ragazza si asciugò le guance, poi gli indicò con un dito una direzione. Seguendola trovò la cornice di uno specchio rotto contro ad un albero.
“Come ha fatto a finire lì?” si chiese stranito. “E perché proprio uno specchio?”
Secondo le storie, gli specchi davano accesso all'Alto mondo. Poteva... essere saltata fuori da lì? No, non credeva a queste cose, tentò di convincersi.
Ma davvero non ci credeva? Rabbrividì sentendo la ragazza dire:
«Fate.»
Un attimo di perplessità.
«Scambio.»
Portò la mano al mento. Era la più stramba delle ipotesi, ma tutti gli elementi si incastravano, non poteva continuare a negarlo.
«Chan-ge-ling.» Sgranò gli occhi.
«Tu... sei una Changeling?»
L'ansia lo assalì. Se era vero, i racconti finivano sempre dicendo che i changeling fuggiti morivano. Poteva credere ad una favola e anche a questo?
«Hai un nome?» chiese. «Io sono Hames.»
«Dunì...» rispose la ragazza, incerta.
«Dunì? Che strano...»
Aggrottò le sopracciglia. Hames era sicuro di aver già sentito da qualche parte quel nome, ma non riusciva a ricordarne i particolari. Forse faceva parte della vecchia storia, ma gliene sfuggiva il significato e comunque non se ne curò, vedendo la ragazza che smetteva di singhiozzare. Nonostante il sollievo, qualcosa non gli tornava e l'agitazione lo assalì. Le zampe di ragno sfarfallarono sotto l'uniforme per un attimo, e il silenzio calò fino a quando Hames non si decise. Non poteva lasciarla lì da sola, l'avrebbe presa e portata al sicuro.
«E va bene» le fece, rimettendo via il telefono. «Ascolta, ti devo portare via da qui prima ti trovino. Ti prendo in braccio, ok? Non mi sembra tu sia nelle condizioni di camminare.» La ragazza non sembrò ascoltarlo. La scosse lievemente per una spalla.
«Hey, tutto bene?» Si ritrovò improvvisamente piantati tutti e tre gli occhi della piccola addosso, fissi.
«Dunì» gli ripeté con un sorrisino. «Dolore» aggiunse.
Hames rabbrividì. Poteva benissimo essersi rotta qualcosa, eppure il come l'aveva detto gli dava tutt'altra sensazione. Era come se...
Come fosse stato svegliato all'improvviso, finalmente il suo cervello unì i pezzi. Dunì non era un nome, Dunì era il termine del linguaggio fatato che indicava “dolore”. La ragazza non aveva dolore, il suo era un avvertimento: ad un tratto ebbe paura, e così si ricordò perché la nonna gli diceva di non temere, che i Changeling non sopravvivevano.
Si ritrovò schiacciato dalle zampe di ragno, che lo tenevano con più forza di quanta ne potesse immaginare. La boccuccia sorridente della ragazzina, irta di piccoli denti affilati, si aprì in un sorriso estasiato, seguita dai tre occhi neri.

Finalmente, Hames urlò. Ruppe il silenzio nel bosco con una singola vocale a cui diede tutta la propria voce, ma dopo poco il grido si spense all'improvviso, spezzato.
«Sai perché i Changeling non sopravvivono?» gli ripeté la memoria con la voce di sua nonna. «Perché divorano solo i cuori umani... i cuori teneri delle persone oneste.» 

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