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A caccia di pregiudizi linguistici: sfatiamo qualche mito

Creato il 25 agosto 2013 da Sulromanzo
Autore: Michele RainoneDom, 25/08/2013 - 11:30

Pregiudizi linguisticiEsistono lingue primitive e lingue complesse? È corretto parlare di lingue inferiori e superiori, persino di lingue facili e difficili da apprendere? Sono solo pregiudizi linguistici, anche se non sempre riesce facile accettare che non vi sia nemmeno un fondo di verità: sfatiamo qualche mito.

L’idea più difficile da condividere sta sicuramente nell’assenza di differenze tra le lingue delle società meno evolute, non solo dal punto di vista tecnologico ma anche da quello culturale (e così via), e quelle delle comunità più avanzate. Intendiamoci: i Personal Computer non esistevano nell’antichità, e lo stesso vale anche per tutto il resto dello scibile umano, che è progredito col tempo; è ovvio, perciò, che l’inventario lessicale di quei popoli fosse limitato alla realtà effettivamente conosciuta e conoscibile.

Il punto è che un sistema linguistico non può essere considerato “primitivo” soltanto perché gli elementi che ne compongono il lessico sono estremamente ridotti: dovremmo considerare, altrimenti, il latino e il greco delle lingue sottosviluppate rispetto alle loro figlie e ritenere, perciò, che, siccome la nostra non è una società primitiva, pure gli idiomi che parliamo – che comunque sono figli del latino – siano senz’altro superiori alla lingua madre. Niente di più superficiale; anzi: se è vero che un sistema si sviluppa nel tempo tendendo anche verso la semplificazione, ed è vero, si arriva a stabilire l’esatto opposto. Ma a parte questo, non è necessario spingersi a chissà quali considerazioni per dimostrare l’inesattezza della conclusione: il latino, per esempio, è una lingua che di primitivo non ha nulla (e lo stesso vale per il greco).

Si potrebbe pensare, allora, che una società primitiva abbia un sistema morfologico, fonologico e grammaticale incompleto rispetto a quello delle società successive; ma pure questa considerazione è destinata al naufragio: la facoltà del linguaggio, che trova concretizzazione nelle migliaia di lingue esistenti ed esistite sulla terra, è vitale per qualsiasi gruppo che voglia dirsi sociale, a prescindere dalla vocalità dei sistemi attuali e dalla esclusiva gestualità degli inizi. In quanto tale, e cioè in quanto sistema di comunicazione, il linguaggio deve, quindi, permettere a chi lo utilizza di esprimere tutto il reale e non solo una parte di questo; un sistema incompleto a livello grammaticale, perciò, non solo non funzionerebbe, ma non potrebbe proprio esistere: per esempio, come può una lingua non avere i mezzi per esprimere il plurale? L’organizzazione della realtà, insomma, presuppone completezza, quindi pensare che esistano lingue primitive (che diano origine a sistemi complessi) e addirittura monche è un pregiudizio privo di qualsiasi base scientifica.

Anche perché  «in realtà lingue di questo tipo non sono attestate: tutte le lingue – sia quelle parlate oggi sia quelle ‘morte’ di cui abbiamo documentazione – hanno sistemi fonologici, morfologici e sintattici complessi. Il parallelismo società primitive/lingue primitive non ha dunque motivazioni scientifiche» (G. Graffi, S. Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Il Mulino, 2010).

L’idea di attribuire superiorità o inferiorità alla natura di un dato sistema linguistico coinvolge anche la differenza che esiste, ma che non è di tipo strutturale, fra lingua e dialetto; la convinzione che quest’ultimo non sia una lingua e sia incompleto – ancora una volta: inferiore – rispetto all’italiano non ha fondamenta (per quanto la storia dell’insegnamento in Italia sia stata caratterizzata da interventi governativi e non solo volti ad eliminare dai mezzi di espressione del fanciullo proprio la sua “lingua prima”). È indubbio che il dialetto abbia un inventario lessicale molto più povero se paragonato a quello della lingua ufficiale, ma ciò non significa che non abbia la dignità di lingua: basti pensare al fatto che le basi dell’italiano vanno rintracciate nel volgare fiorentino. La differenza tra l’uno e l’altra, insomma, non sta in un fatto genetico – chiunque può parlare in dialetto per tutta la vita, senza conoscere una sola parola di italiano, con chi lo capisce – bensì in un fatto socio-politico: una serie di circostanze, ad esempio, ha reso il fiorentino più prestigioso rispetto ai restanti dialetti italiani ed è da questo che la nostra lingua ha preso le mosse, fino a soppiantare tutti gli altri idiomi locali (la burocrazia, l’insegnamento, le prediche in Chiesa: tutte le situazioni oggi ufficiali avvengono  in italiano e non in uno dei tanti dialetti della Penisola).

Ma i pregiudizi non consistono solo nell’errata convinzione che un’entità X sia inferiore a un‘entità Y: un pregiudizio linguistico legittimo riguarda pure la difficoltà di apprendimento di ogni idioma; per questo, la lingua inglese sarebbe più facile di quella tedesca, così come la lingua cinese sarebbe tra le più difficili da imparare: tali considerazioni sono vere, ma fino a un certo punto; se volessimo individuare la lingua più difficile del mondo, infatti, dovremmo cominciare a fissare un punto di partenza che sia condiviso da tutti; postulare, cioè, l’esistenza di un idioma che venga appreso da ogni parlante alla nascita: questo idioma, però, forse è esistito solo prima della confusione babelica e non può fungere, così, da punto di partenza. Si potrebbe pensare, allora, alla lingua inglese, strumento di comunicazione internazionale insegnato in tutto il mondo: ma non sarebbe comunque esatto, visto che il suo apprendimento non avviene sin dalla nascita per ciascun parlante.

In assenza di un punto di partenza condivisibile in tutto il mondo, insomma, è impossibile parlare di lingua più difficile in assoluto; e questo, per di più, avvalora un’altra riflessione: la difficoltà nell’apprendimento di un idioma dipende proprio da quello che il parlante ha già appreso; in altri termini, un giapponese troverà senz’altro difficoltà a imparare il cinese, ma impiegherà comunque meno tempo rispetto a un italiano, che si troverà dinanzi a una lingua non solo tonale ( ha un significato diverso da , così come è differente l’accezione di e ), bensì pure ideografica (quindi non alfabetica) e isolante (in cui sono assenti declinazioni e flessioni ed è impossibile scomporre le parole in unità più piccole). Per gli stessi motivi, un ragazzo cinese troverà difficoltà nell’apprendimento dell’inglese molto di più rispetto a quelle che incontrerà un ragazzo italiano o, meglio ancora, tedesco.

«Gli italiani – si legge in Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica – sostengono che lo spagnolo è facile e che il tedesco è difficile. Ciò può sembrare vero (anche se non tutti i linguisti sarebbero d’accordo) perché italiano e spagnolo sono lingue romanze non molto distanti (italiano e francese sono anche lingue romanze  ma con una ‘distanza’ maggiore, misurata in termini di differenziazione rispetto alla comune lingua madre, il latino), mentre italiano e tedesco appartengono a due famiglie linguistiche diverse, la romanza e la germanica. È presumibile però che per un cinese spagnolo e tedesco siano entrambe ‘difficili’».

Anche questo mito, che forse è più un pettegolezzo, è stato sfatato; e la conclusione può essere finalmente tratta, senza però sbagliare: è sempre il metodo scientifico – la scienza che postula e la storia che dimostra – a trionfare sulle intuizioni, che, per quanto molto spesso siano alla base di qualsiasi scoperta e ricerca, in casi come questi si scontrano con realtà lontane anni luce dall’idea che di esse abbiamo.

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