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Tutto cambia nella parte seguente, e non è un eufemismo, davvero: Gomes ribalta i connotati dell’opera abbandonando il fin lì protagonista Francisco giunto allo step dei trent’anni nei deliri del suo morbillo (è altamente probabile che ciò che seguirà dal momento in cui si mette a letto non è altro che un suo sogno barra incubo) e si impegna ad ingarbugliare la faccenda con una grottesca rimasticazione della fiaba di Biancaneve (come prima, è probabile che la scelta di tale favola sia dovuta al fatto che Francisco aveva appena assistito ad una recita scolastica della suddetta, fornendo perciò, se vogliamo, anche una connessione logica). Sullo schermo si affastellano sette strambi personaggi (visto il numero è facile capire chi rappresenterebbero…) che si dicono impegnati nell’accudimento di Francisco ma che al contrario Gomes impelaga in digressioni dove è complicato scorgere un chiaro senso d’insieme; varie ed irrisolvibili sono le situazioni che il surreale settetto si trova ad affrontare, e da tale pluralità, sganciata in toto da qualunque parvenza di razionalità, ammontano immagini, segni, oggetti, metafore, epifanie e quant’altro possiate immaginare di altrettanto aleatorio. Insomma, si vorrà sapere, il primo lungometraggio di Miguel Gomes è un mezzo pasticcio? Lui una chiave di lettura (presa da qui) l’ha fornita, e val la pena buttarci uno sguardo:
In A Cara que Mereces ho voluto affrontare la crisi di mezza età di un uomo immaturo con il quale mi identificavo; era un esorcismo, nel quale evocavo sette creature come i sette nani della fiaba dei Grimm. È un film sulla morte dell’infanzia, non in forma metaforica bensì letterale: reinvento un mondo infantile che al suo interno ha tutte le stigmate dell’età adulta. Se ci pensi, la fine dell’infanzia può essere una cosa crudele: per questo ho creato sette figure, sette fantasmi, che posseggono un codice, come in un gioco di bambini. Fantasmi proiettati da qualcuno che sta realizzando un film, cioè io.
Presa coscienza della sfumatura autobiografica, la dimora dei sette uomini diventa attraverso le parole di Gomes come la colonia di Tabu, ovvero un luogo metafisico, un luogo affrancato dalle leggi della realtà (si può sparare ad una nuvola? Si può trovare il mare in un bosco?), dove il cinema diventa il medium tra la dimensione del concreto (d’altronde girano giornaletti porno nella casa) e quella della fantasia (il mostro in cantina). L’idea sulla carta è vincente, e tanto di cappello a Gomes che già nel 2004 dimostrava di saper battere strade per nulla convenzionali, quello che gli si può imputare è però uno sviluppo di questa idea sghembo, criptico e frammentato (il sottoscritto senza le sue ammissioni non sarebbe arrivato al nocciolo della questione), risultando ostile alla fruizione e forse troppo impegnato negli assunti teorici del film, i quali comunque sono validi e rivelano uno spirito autoriale meritevole di ogni miglior augurio. Perché Gomes ha le carte in regola per lasciare un segno profondo nel cinema contemporaneo.
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