Il Belgio ha due facce, una di pioggia e una di sole. In tutti e due i casi, le sue abitazioni quasi tutte uguali con gli infissi bianchi il più delle volte, diventano più vivide. Il loro rosso cambia eppure mantiene l’essenza con quella luce che, in fin dei conti, è ancora bianca. Con la pioggia, con il sole. Quel sole di oggi che fa volare i pulviscoli d’oro anche nel primo pomeriggio come se già fosse l’ora del tramonto, che rende un po’ polverosi quei tratti di campagna in pavè, tra un fosso e l’altro.
Com’è il profumo di casa? Difficilmente lo si può dire. Per chi è abituato a passare mesi e mesi lontano è un richiamo forte, che entra nelle ossa. La Omloop Het Nieuwsblad da fuori sembra una corsa spacca gambe come tutte le Classiche, da dentro è pure peggio.
E questa era una nave strana con la quale remare. Con Capitan Sagan a mettere soggezione: la sua maglia iridata nuova fiammante, lo sguardo nascosto dietro gli occhiali e quella strana aria da ne ho ancora che gli aleggiava attorno. Attorno a lui marinai occasionali, come tutti quelli che si incontrano nelle fughe, prima si danno una mano contro il gruppo poi si sciolgono per combattere tra loro. Il ciclismo è fatto così. Uno e tanti, tanti e uno. Tiesj Benoot, giovane francese con il cuore sulle strade del Nord; Greg Van Avermaet belga che azzanna i muri; Luke Rowe, abituato a tirare come un matto per i capitani e poi Alexis Gougeard reduce della fuga dei primi chilometri ed è forse quello che sperava meno di tutti e che poi sorprende per il pazzo coraggio di rimanere aggrappato fino all’ultimo.
Non si assomigliano nemmeno un po’ eppure restano insieme fino alla fine, fino a quando tutti avrebbero scommesso a occhi chiusi su Sagan. I secondi che barcollano. Da cinquanta a venti. Giù di botto, come un termometro nella neve. Il gruppo perde d’importanza, anche se possono sentirne il fiato. Sagan si stringe lo scarpino. Ora parte, anzi no. Tutti aspettano ma nemmeno l’ultimo chilometro lo convince a scattare.
Settecento metri.
Greg è a casa, lui lo sa che questo pulviscolo che ondeggia nel sole proprio come quei secondi che ci sono stati tra loro e il gruppo, è lo stesso che guardava da bambino durante i suoi allenamenti. Solo lui sa che cosa è successo da allora ad adesso. Solo lui e forse, anzi sicuramente, la strada. Quel filo che lo riporta a casa è lo stesso che lo fa scattare negli ultimi metri. Il solito volo piegato sul manubrio, leggermente alzato sui pedali, quel tanto che basta per sentirsi più avanti. Più avanti di tutti. Persino di chi ha la maglia arcobaleno sulla schiena.
E’ questo l’effetto che fa. La linea bianca è un porto d’arrivo per tutte quelle strane e spericolate navi che escono dalla flotta. D’altronde il pavè non potrebbe essere altro che una tempesta che scombussola tutto: gambe, testa, biciclette. Una volta attraversato non si è più gli stessi. Prima, dopo e forse anche durante.
Figuriamoci quando sai di essere a casa.