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A casa

Creato il 27 febbraio 2016 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Il Belgio ha due facce, una di pioggia e una di sole. In tutti e due i casi, le sue abitazioni quasi tutte uguali con gli infissi bianchi il più delle volte, diventano più vivide. Il loro rosso cambia eppure mantiene l’essenza con quella luce che, in fin dei conti, è ancora bianca. Con la pioggia, con il sole. Quel sole di oggi che fa volare i pulviscoli d’oro anche nel primo pomeriggio come se già fosse l’ora del tramonto, che rende un po’ polverosi quei tratti di campagna in pavè, tra un fosso e l’altro.

Com’è il profumo di casa? Difficilmente lo si può dire. Per chi è abituato a passare mesi e mesi lontano è un richiamo forte, che entra nelle ossa. La Omloop Het Nieuwsblad da fuori sembra una corsa spacca gambe come tutte le Classiche, da dentro è pure peggio.

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Perché duecento e passa chilometri sciolgono tutto, a volte persino i piani. Nel ciclismo devi fare i conti  con la fatica e la tua capacità di sopportazione in quel momento prima che con tutto il resto. Lo sanno tutti, persino quelli che si sono ritrovati nel gruppetto di testa con Peter Sagan. Cinquanta secondi, quasi un minuto e così tanti chilometri ancora da percorrere. Dosare le forze, calcolare le furbizie. Come ce le metti insieme queste due cose? Gambe e cervello, dico. E’ una cosa da monaco zen eppure vince chi ci riesce. Nessuno sa quanto saranno lunghi quei chilometri, se qualcuno si staccherà dalla ruota o il gruppo si rimangerà tutto come l’alba che ingoia i sogni. Funziona così. Puoi contare solo su te stesso, sulla fedeltà dei tuoi compagni e sperare che la fortuna faccia altrettanto.
E questa era una nave strana con la quale remare. Con Capitan Sagan a mettere soggezione: la sua maglia iridata nuova fiammante, lo sguardo nascosto dietro gli occhiali e quella strana aria da ne ho ancora che gli aleggiava attorno. Attorno a lui marinai occasionali, come tutti quelli che si incontrano nelle fughe, prima si danno una mano contro il gruppo poi si sciolgono per combattere tra loro. Il ciclismo è fatto così. Uno e tanti, tanti e uno. Tiesj Benoot, giovane francese con il cuore sulle strade del Nord; Greg Van Avermaet belga che azzanna i muri; Luke Rowe, abituato a tirare come un matto per i capitani e poi Alexis Gougeard reduce della fuga dei primi chilometri ed è forse quello che sperava meno di tutti e che poi sorprende per il pazzo coraggio di rimanere aggrappato fino all’ultimo.

Non si assomigliano nemmeno un po’ eppure restano insieme fino alla fine, fino a quando tutti avrebbero scommesso a occhi chiusi su Sagan. I secondi che barcollano. Da cinquanta a venti. Giù di botto, come un termometro nella neve. Il gruppo perde d’importanza, anche se possono sentirne il fiato. Sagan si stringe lo scarpino. Ora parte, anzi no. Tutti aspettano ma nemmeno l’ultimo chilometro lo convince a scattare.
Settecento metri.
Greg è a casa, lui lo sa che questo pulviscolo che ondeggia nel sole proprio come quei secondi che ci sono stati tra loro e il gruppo, è lo stesso che guardava da bambino durante i suoi allenamenti. Solo lui sa che cosa è successo da allora ad adesso. Solo lui e forse, anzi sicuramente, la strada. Quel filo che lo riporta a casa è lo stesso che lo fa scattare negli ultimi metri. Il solito volo piegato sul manubrio, leggermente alzato sui pedali, quel tanto che basta per sentirsi più avanti. Più avanti di tutti. Persino di chi ha la maglia arcobaleno sulla schiena.
E’ questo l’effetto che fa. La linea bianca è un porto d’arrivo per tutte quelle strane e spericolate navi che escono dalla flotta. D’altronde il pavè non potrebbe essere altro che una tempesta che scombussola tutto: gambe, testa, biciclette. Una volta attraversato non si è più gli stessi. Prima, dopo e forse anche durante.

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Sei a casa, Greg. Eppure sei così serio su quel podio. Ci sono gli occhi spalancati della piccola Fleur che assomigliano ai tuoi. Forse è vero che alla felicità non si è mai abituati. Forse è vero che la fatica si mangia tutto, persino le docce di champagne, la gente che grida di te nella tua stessa lingua. Forse è vero che non è semplice dirsi che avevi ragione, che si può essere campioni anche andando per gradi, un sacrificio alla volta. Perché alla fine, nonostante qualcuno abbia tentato di incolpare il gruppo di noia e omologazione, ognuno è diverso a suo modo. Che si vinca o si perda.  Ognuno ha il suo modo di essere sé stesso e questo, in ogni parte del mondo, è il piano migliore che si possa avere. Figuriamoci quando quella è la stessa aria che senti sulla faccia le sere d’inverno in giardino, con il cielo esploso in un tramonto e le tue galline che ti razzolano attorno.
Figuriamoci quando sai di essere a casa.



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