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A Cena col Nemico

Creato il 08 febbraio 2013 da Marino Maiorino
Il primo post che intendo pubblicare con estratti del libro è preso dal Cap. V - A Cena col Nemico.
Due protagonisti del romanzo, Gavio e Pelagíos, sono invitati ad un symposio con un forte carattere diplomatico presso la casa di Marius Porfirius, un mercante romano che vive a Neapolis. Durante il banchetto, presenteranno sé stessi e racconteranno la loro storia.
[…] Pelagíos non era mai stato in una casa romana. Lo stile semplice ed equilibrato, la rigorosa distribuzione degli ambienti, scandita da semplici moduli quadrati, davano un'impressione di spazio e comodità che a lui risultavano eccessivi.
Nella casa non mancava l'acqua, che zampillava incerta ed allegra nella piccola vasca posta al centro del perystilium. Questo, al centro di poche stanze, era evidentemente l'ambiente più vecchio della casa, il primo ad essere stato realizzato, come se per il proprietario esso avesse avuto un valore particolarmente significativo. Odorose piante aromatiche ed officinali ed alcuni alberelli da frutto crescevano in due angoli opposti di quel cortile, quasi ad ampliarlo oltre i limiti fisici delle mura e così abbracciare dentro di sé un po' di natura.
Al di là dei pesanti tendaggi che chiudevano l'ingresso alla sala da pranzo, alcune voci che discorrevano amabilmente si interruppero quando quella di Marius Porfirius, all'improvviso, si elevò sulle altre con premura, pregandole di osservare un istante di silenzio.
[…]
Marius era un uomo di corporatura forte, basso, con una calvizie pronunciata. Un tempo era forse stato più prestante, ma le mollezze della sua attuale attività ne avevano arrotondato il fisico in una leggera pinguedine: aveva tutto l'aspetto di un mercante.
Né l'uno, né l'altro amico si aspettavano di essere il fulcro della serata, né che Marius li avrebbe accolti in quel modo: vecchio intrigante! Gavio rise tra sé, chissà se il vecchio Nymphios si era aspettata una mossa del genere ed aveva mandato apposta il figlio alla cena con i Romani, affinché qualcosa giungesse a Roma del ragionare dei Neapolitani, senza che una fonte ufficiale si compromettesse. Facendosi innanzi per accoglierli nella sala, Marius Porfirius presentò i nuovi arrivati ai suoi commensali.
«Amici carissimi!», cominciò con un certo orgoglio nella voce. «È con sommo piacere che ho l'onore di portare a quest'umile convivio Gavio, figlio del nostro illustre bouleta Nymphios che sembra essere riuscito a portare la concordia di opinioni nell’ekklesia, ed il nobile tebano Pelagíos, suo amico, appena giunto dopo una permanenza presso la scuola filosofica di Elea».
Il padrone di casa si rivolse poi ai due e li invitò a prendere posto sui klinai alla sinistra al suo. Alla sua destra erano già distesi i legati romani.
«Gavio, Pelagíos, permettete che vi presenti miei amici di lunga data, gli ambasciatori inviati da Roma per chiedere il sostegno di Neapolis nella diatriba che la vede contrapposta ai Samnites: Junius Brutus Scaeva e Cloelius Spurius Quintus.
Triclinio romanoFoto del triclinio ("stanza dei tre klinai") romano della calle Añon a Zaragoza. È in stanzette come questa che i romani si riunivano in casa con i loro amici per trascorrere le serate. Fonte della foto: Wikipedia.
«Amici miei», tornò poi a rivolgersi ai Romani, «spero che Gavio voglia raccontarci la sua storia perché, come vi stavo già anticipando, egli fu adottato da Nymphios, essendo quello privo di figli e trovando in questo giovane campano di nascita un uomo più valido di tanti suoi concittadini».
A Gavio si drizzarono i peli sulla nuca: Marius aveva detto a chiare lettere che le sue origini non erano greche. Forse il giovane sperava di poter fare della diplomazia spicciola, di rappresentanza, invece era finito lui stesso al centro della discussione. Era il momento di mettere in pratica quanto appreso in tanti anni accanto al vecchio Nymphios.
«Non so cosa vi abbia raccontato questo filibustiere!», osservò all'indirizzo di Marius, sopprimendo dentro di sé ogni risentimento verso il padrone di casa e cercando di apparire persino divertito dalla situazione. «Quindi dovrò cominciare da lontano.
«Nacqui nei pressi di Capua, quella che all'epoca era probabilmente la più grande città tyrrhena, forse più grande della stessa Roma». Esclamò non senza una punta d'orgoglio, raccogliendo l'assenso dei Romani che, Gavio lo sapeva, sarebbero stati più disponibili ad ascoltare una persona originaria di quel loro valido alleato.
«Di cosa manca Capua per decidermi a venire a Neapolis? Il desiderio di vedere cose nuove, di aprire i propri orizzonti, alberga in tutti i cuori giovani, indifferente alla loro origine. Quanti lasciano oggi Athéne per andare a Babylona o a Karchedón rincorrendo un sogno di gioventù? Potremo più tardi chiederne conferma al mio amico Pelagíos.
«Eppure, riesco ancora a trovare qualcosa di fondato nella mia irrequietezza giovanile: Capua non sarebbe mai diventata una città dal nome universalmente rispettato e la colpa, se colpa può dirsi, è certamente da attribuirsi alla natura dei luoghi, così prodiga da aver plagiato l'indole del suo popolo. Non riesco a pensare ad un posto dagli inverni più miti, dalle estati più dolci, dalle piogge più misurate, dai venti più propizi, dal suolo più fertile della pianura campana. Già erano state fondate su questi lidi le più settentrionali colonie Elleniche, già i raffinati e gioiosi Tyrrheni erano giunti di borea ammaliati dalla feracità dei luoghi, già tanti dei bellicosi Saunitis avevano abbandonato la dura vita dei monti natali per scendere a godere della placida e ricca pianura. Infine, persino voi, gli austeri ed orgogliosi Romani, non avete saputo resistere alle lusinghe di un territorio così benedetto dagli Dei: “Campania Felix” la chiamate!»
[…]
«Ora immaginatemi giovane e sprovvisto di quell'umiltà che solo l'età insegna. La mia famiglia era forse di origini modeste, ma ciò non mi ha mai impedito di pormi domande. Più di tutto erano la vastità del firmamento ed i suoi moti ad agitare la mia sete di sapere. Le mie domande non potevano trovare risposta dov'ero nato: quanto mi dicevano i sacerdoti non aveva per me alcun senso e Capua non aveva scuole di filosofia. Oh, certo, essa è forse il mercato più ricco che possiate mai vedere: i suoi profumi, le sue stoffe, i suoi cavalli... Quale uomo non vorrebbe poter dire almeno una volta nella vita alla propria donna “Ricevi, mia cara, quest'unguento di rose centifoglie che ho comprato per te alla Seplasia!”? Ma ai miei occhi tutto ciò sembrava di assai poco conto. Fu finalmente un tutore ad incoraggiarmi nella ricerca e ad indirizzarmi allo studio della filosofia per il quale, disse, avrei dovuto trasferirmi a Neapolis. Proprio in questa città straniera dovevo venire se desideravo placare le mie inquietudini. Fu per questo che abbandonai la casa paterna non appena giunto in età di poterlo fare».
[…]
«Eppure, fu proprio durante uno di tali colloqui che un anziano al quale non avevo mai fatto caso prima si avvicinò a noi e fu da tutti salutato con riverenza. Solo dopo seppi che si trattava di un eroe della guerra tra le opposte fazioni di Syrakuse ai tempi di Dionysios il Giovane per il quale, al comando di una piccola flotta con quattromila uomini, era riuscito a rompere l'assedio di Ortygía, a portare soccorso al figlio del tiranno Apollokrates, proprio nel peggior momento per il suo partito, a venire a patti con gli assedianti nonostante una condizione di schiacciante inferiorità, ed infine a ritornare da quell'avventura con un tesoro favoloso! Alcuni dei miei compagni avrebbero desiderato essere stati suoi allievi solo per prestigio, altri gli rivolgevano quegli sguardi che ancora non riesco a condividere tra due uomini... Io non lo conoscevo affatto!
«Era lieto di vedere un giovane della mia età disquisire con tanta curiosità di filosofia, i miei amici mi presentarono a lui ed egli mi propose di diventare suo allievo».
«Fu così che conobbi Nymphios, della fratría degli Artemisi, il mio autentico mentore, colui che plasmò il mio intelletto. Era già in là con gli anni e volle che abbandonassi ogni altra cosa per dedicarmi ad assisterlo. In cambio, avrei potuto parlare con lui tutto il giorno ed apprendere, se era davvero questo il mio desiderio.
«A Nymphios gli Dei non avevano voluto far dono di un figlio; le sue due figlie erano entrambe morte in tenera età sicché, senza saperlo, incarnavo per lui il sogno di una vita. Trascorsi che furono alcuni mesi al suo servizio, egli cominciò a trattare me come un figlio, a volermi a cena non più come coppiere, bensì come commensale.
«Cominciai a conoscere le famiglie di quei giovani che ancora mi portavano amicizia, – alcuni mi avevano tolto il saluto, poi lo venni a sapere, rosi dall'invidia – ad entrare nelle loro case, ad ascoltare i loro discorsi di politica e persino a dare la mia opinione quando mi era richiesta, ma il mio argomento preferito restava la filosofia, con una spiccata predilezione per la filosofia naturale. «Nymphios non avversava questa mia inclinazione, anzi! Le sue parole erano sempre di sprone a continuare un discorso finché non l'avessimo condotto al termine, sia quando il dialogo fluiva pacato ma ancor di più quando le argomentazioni venivano sostenute in maniera accalorata e viscerale. Solo, desiderava che mi addentrassi anche nella filosofia politica, non perché dovessi nutrire ambizioni in tal senso, bensì per completare la mia formazione.
«La filosofia naturale – mi diceva – è sì affascinante, e merita tutta l'attenzione degli spiriti eletti. Ma quand'anche riuscissi a comprendere, e perfino a dominare le forze della natura, trovandoti al riparo delle mura dell'amata polis, circondato dai concittadini, più ti varranno per la tua incolumità la conoscenza dell'animo umano e della filosofia politica. Guarda me: io non avevo un figlio che Hera o Deméter mi avessero concesso, me ne ha dato uno Athena».
«Compresi del tutto cosa volesse dire il giorno in cui mi condusse alla fratría e mi dichiarò, di fronte all'assemblea dei frétori, suo figlio adottivo».
[…]
«Trascorsero così alcuni anni, fino a quando Nymphios credette di non avere più niente da insegnarmi e mi esortò ad ampliare ulteriormente le mie conoscenze; mi ingiunse – proprio come un padre ad un figlio inerte – di affrontare un viaggio presso una vera scuola di filosofia. Solo così, disse, avrebbe sentito di aver portato a compimento il suo sogno.
«Il suo sogno, il suo desiderio. Il mio sogno di apprendere era andato di pari passo con il suo di essere padre ed educare un uomo alla conoscenza ed alla saggezza. Pieno di gratitudine, decisi di frequentare la scuola che era stata di Zénon, ad Elea.
Città della Magna Grecia e loro moneteCittà della Magna Grecia e loro monete. Alcune città sono oggi scomparse, ma erano un tempo ricche e potenti. Elea, dove fiorì la scuola di Zenone, è l'attuale Velia, lungo la costa lucana tra Poseidonia (oggi Paestum) e Laos.
[…]
«Durante quella mia permanenza ad Elea, un evento apparentemente fortuito si convertì in un accadimento della massima importanza: fu lì che conobbi Pelagíos, il mio amico qui presente stasera grazie alla cortesia ed all'ospitalità di Marius. Tra tanti compagni il più fidato, tra tanti guerrieri il più sicuro, tra tanti filosofi il più arguto».
«È certo!», esplose Marius che, pur non avendo mai ascoltato la storia di Gavio dalla sua viva voce, aveva atteso con malcelata impazienza quel momento. «Di Pelagíos posso anch'io dirvi che è di nobili origini. Il padre, Learchos, era uno dei formidabili guerrieri del Battaglione Sacro!»
«Avrei preferito tacere questo dettaglio!» commentò il tebano, asciutto, senza sapere se sentirsi più lusingato o offeso.
«Perché?», chiese con ammirazione, quasi incredulo, quello dei due ambasciatori che sembrava più raffinato, quello che Marius aveva chiamato Cloelius. «Se davvero tuo padre era di quegli eroi, ci sentiamo onorati di averti a cena con noi!»
«Mio padre era un soldato; morì a Cherónea per salvare me dalla morte invece che Thebes dalla tirannia filippide». Il Greco rispose prudente, ma siccome le parole scelte erano veritiere, esse lasciavano anche trasparire un dolore non estinto.
«Anche tu, dunque, eri su quel campo di battaglia? Anche tu eri di quei prodi?» Il diplomatico romano era rimasto impressionato da quella rivelazione come se Achille stesso gli si fosse parato innanzi armato di tutto punto, pronto a duellare con Ettore.
«Prode sarei se fossi caduto anch'io...», commentò Pelagíos.
«Ed a cosa sarebbe valso?», interruppe Marius, come uno che vuole fermare un fiume di sciocchezze, «a lasciare tua madre nel pianto, buona per la schiavitù invece che per un'onorevole vecchiaia, meritata dopo aver accudito un padre sì valoroso, ed aver cresciuto un figlio sì verace?
«Lascia che un Romano ti dica a cosa serve la morte di un soldato nella sconfitta: a dare a lui pace, senza rimorso per aver fallito! Un momento, ed il freddo ferro avrà traghettato il suo fiacco valore nell'Avernus; la sua vita unico prezzo per cotanto fallimento.
«Il vero uomo, invece, vive, ché molti possono morire in battaglia, ma pochi possono affrontare il disonore e sopravvivere ad esso».
[…]
«Vi è forse chi non prova dolore per la scomparsa del padre?», Esordì mesto Pelagíos. «Ma il vostro parlare mi suona sincero ed incoraggiante, ed onorare lo scomparso è per me motivo di vanto. Vi narrerò dunque di quel giorno sulla piana di Cherónea, quando l'esercito di Phílippos umiliò il valore di tutta l'Ellade ed annichilì la più straordinaria compagnia d'armi che sia mai esistita».
«I due eserciti greco e macedone erano schierati a Cherónea l'uno di fronte all'altro, con la nostra armata in una posizione di vantaggio a causa del terreno che scendeva verso il nemico. Il nostro schieramento era inoltre protetto dalla ripida altura del Thurion sulla destra, e dal fiume Kephisos sulla sinistra. Da un'estremità all'altra, la nostra prima linea misurava venti stadi. Tanto le nostre forze come quelle dei macedoni contavano intorno ai trentamila effettivi. Gli ateniesi, addestrati poco e male, l'ombra della potenza governata da Perikles, occupavano l'ala sinistra del nostro schieramento; noi tebani, coi nostri sfrontati elmi per i quali un tempo eravamo stati persino derisi , eravamo alla destra. Nel mezzo, una compagine degli altri alleati faceva da cerniera.
«Dal canto loro, i Macedoni scesero in campo brandendo picche di lunghezza spropositata, che essi chiamano sarisse, le quali avrebbero potuto certamente compensare lo svantaggio della loro posizione.
Schema della Battaglia di CheroneaSchema della Battaglia di Cheronea. Fonte: Wikipedia
«Lo scontro iniziò in maniera incerta: venimmo al corpo a corpo senza che uno dei due schieramenti si mostrasse chiaramente superiore all'altro. Noi dello Ieròs Lóchos esultavamo perché ancora non eravamo entrati nella battaglia, ed attendevamo il nostro spiegamento per far pendere le sorti dello scontro in nostro favore.
«Avremmo dovuto restare in quella posizione di vantaggio, o comunque spingerci solo fin dove avessimo ancora potuto contare sul favore del terreno, ma ci sembrò invece che, senza alcun motivo apparente, l'ala destra dello schieramento macedone cominciasse a cedere di fronte agli Ateniesi, la qual cosa ci stupì molto, giacché la nostra prima linea lottava con non minor vigore contro nemici organizzati alla stessa maniera.
«Lysicles, il generale ateniese, era folle d'orgoglio. Sembra che abbia esclamato Li inseguiremo fino in Makedonías!, ed alle parole fece seguire i fatti, gettando i suoi addosso ai nemici. Vedendo gli Ateniesi farsi avanti in quel modo, si dice che Phílippos abbia osservato “Gli Ateniesi non sanno vincere”, ed aveva ragione.
«Le nostre forze non potevano seguire le ateniesi: bloccate da avversari più ostinati, erano ferme nella stessa posizione dall'inizio della battaglia, e la linea del nostro schieramento si spezzò in due. «Fu allora che Aléxandros, che era sempre stato irruento ed ambizioso, e certamente protetto dagli Dei Olimpici – perché, chi può osare ciò che lui ha osato e mettere tante volte a repentaglio la propria vita in tutti i modi che a noi soldati vengono sempre sconsigliati, eppur riuscire sempre vittorioso, se non col favore degli Dei?
«Aléxandros, dicevo, sembrava si tediasse di quello scontro, o forse temeva che esso volgesse al peggio per i suoi, decise di raccogliere intorno a sé gli heteri, i suoi compagni più fedeli, e di sconvolgere del tutto l'ordine della battaglia. Dal lontano fianco sinistro piombò sui nostri reparti come un falco si getta sulla preda.
«Avremmo ancora retto, sia pure a costo di molte perdite, se l'orgoglio del padre in quel giorno non si fosse dimostrato più grande di quello del figlio: Phílippos vide che il centro del nostro schieramento si apriva, sbandava, e sapeva bene che lì eravamo noi, il temuto Battaglione Sacro. Si gettò anche lui su di noi che eravamo il nerbo del nostro esercito. Vedendoci sopraffatti, il resto delle nostre forze disertò la battaglia: se noi cadevamo, chi avrebbe potuto resistere?
«E fu così che ci trovammo accerchiati da un mare di nemici, eppure resistevamo, e la vita di ciascuno di noi era pagata a caro prezzo dai Macedoni, finché Phílippos realizzò che sarebbe stato più efficace privarci di qualunque possibilità di risposta. Sostituì ad uno ad uno tutti i reparti coi quali ci teneva in scacco riorganizzando intorno a noi la sua falange dotata delle lunghe sarisse; il nostro numero, già esiguo, non ci permetteva di aprire alcun varco nell'esercito avversario.
«Ma Theagenes, il nostro comandante, ancora non cedeva, e nel clamore della battaglia lo sentivamo cantare gli ordini con la voce rotta dal pianto, perché sapeva che i giorni della libertà di Thebes erano al termine, e perché si disperava che una simile sventura dovesse ricadere sulla sua Patria, lui essendo il comandante. Pure, egli non poteva rimproverarci nulla, ed aveva il cuore esultante di gioia nel vedere con quanta abnegazione eseguissimo ogni suo ordine.
«Ed allora anche noi tutti cominciammo a cantare come un sol'uomo sulle sue note. Gli Spartani cantano e sono accompagnati da musici quando vanno in battaglia, noi cantavamo anche nel culmine della battaglia. In questa che sembrava una scena del più crudo Euripídes, gli ordini di Theagenes ci giungevano limpidi come quando, alternandosi al coro nel teatro, la sola voce dell'interprete domina tutte le altre e finalmente, avendo realizzato che il nostro esercito sbandava perché attendeva con ansia il compiersi della nostra sorte, il comandante ordinò la carica contro il reparto di Phílippos e, per infonderci maggior vigore – era ormai diverso tempo che l'attacco dei Macedoni si era concentrato sulla nostra unità –, si portò sulla linea frontale.
«Mi passò accanto, e sotto l'elmo crestato potei vedere nei suoi occhi che era votato alla morte, e lo stesso vide mio padre che ancora reggeva la sua doru, e non volle permettere che perdessimo il comandante. Fece per seguirlo e coprirlo con la propria arma, ed in quella io avrei dovuto andare con lui reggendo il bell'hoplon, stargli dietro con lo scudo ovale, onore e vanto della nostra famiglia, adornato con l'effigie della clava. Ma egli, che era accorso in supporto di Theagenes istintivamente, realizzò che così facendo stava esponendo anche me a morte sicura, si voltò un istante per ordinarmi con lo sguardo di non seguirlo, la punta della sua asta fu deviata da una lunga sarissa, la sua guardia era scoperta…»
Pelagíos s'interruppe. Gli costava troppo risvegliare quei ricordi, preferì non indugiare su quel momento.
«Nello stesso istante, anche Theagenes veniva raggiunto dalla Liberatrice degli Eroi, con lo xíphos levato, mentre rivolgeva a tutti noi il suo ultimo richiamo alla battaglia, ed il suo canto si fermò.
L'unico suono che si udì poi fu quello della carneficina, del cozzare delle armi sugli scudi, dell'affondare delle picche nelle carni, delle urla degli assalitori, dei gemiti dei morenti».
[…]
Come anticipato, questo è solo un estratto del V capitolo, cosa vi aspettavate?
Ma il mese prossimo ne pubblicherò un'altro, e spero che con questo assaggio vi sia venuta l'acquolina in bocca!

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