In Italia, infatti, prestando ascolto alle ultime rilevazioni dell’Istat, il 18,5% della popolazione non ha svolto nessuna attività culturale: circa un quinto degli italiani non ha mai letto un libro o un giornale, non ha visitato un museo, una mostra, non è andato al teatro e nemmeno al cinema o a un concerto nell’ultimo anno (la percentuale sale al 28,2% al Sud e cala al 12,1% nel tanto vituperato ed evidentemente non solo bifolco e operoso Nord-Est). D’altronde, se i soloni del potere come Poletti si ostinano, nemmeno troppo velatamente a dirla tutta, a sostenere che la cultura non serve (serve solo se può essere spesa e monetizzata – infatti tra i lettori peggiori, oltre ai politici, figurano anche i manager), allora i dati forniti dall’Istat non possono sorprendere nella loro cruda analisi: nel 2015 quasi 6 italiani su 10 non hanno mai aperto un libro e quasi il 52% non ha mai sfogliato un quotidiano… le vaticinazioni di Thomas Mann non si sono rivelate, in tal senso, molto accurate: “una sola frase basterà a descrivere l’uomo moderno: egli fornicava e leggeva i giornali”. O forse, più semplicemente, quello d’oggi non è più l’uomo moderno… In effetti al cittadino globale, novello homo oeconomicus che sa solo far di conto e conosce esclusivamente la logica del do ut des, non frega niente della cultura. Quando va bene essa è solo uno strumento da barattare per acquisire una posizione nel sociale - un po’ come il Trimalcione di Petronio che esibiva i suoi libri per compiacere la propria vanità -, per spuntare un reddito migliore (andare all’Università serve per trovare un lavoro!), o per avere maggior potere contrattuale nel mercato del lavoro. In quest’”Italietta”, sarà anche solo per contrasto col patrimonio culturale che ci circonda, il dato dell’Istat sembra ancora più inquietante. E questo perché, prescindendo da vetuste categorie e ceti sociali, all’italiano, trasversalmente, non interessa assolutamente nulla della cultura: a costui basta, quando sente un alito d’insulso amor patrio, sapere che possediamo più del 50% del patrimonio culturale ed artistico mondiale (percentuale, peraltro, abbondantemente sovrastimata. “Mal che vada possiamo sempre vendercela”, dicono invariabilmente l’omino della strada o il grande ministro delle finanze di turno).
Insomma, chissenefrega se, per dirla con
Camus: “la capacità di godere richiede cultura, e la cultura equivale poi sempre
alla capacità di godere”,
quando godere, per il
cittadino medio, vuol dire anzitutto de-vertere da sé stesso, spersonalizzarsi,
alienarsi per evitare di farsi problemi sulla propria situazione d’impotenza? Anzi,
cosa gli importa di godere con la cultura – cercando di dare un senso alle cose
– quando quel godimento e quel senso può comprarseli comodamente sugli scaffali
di un grande magazzino o negli showroom tematici, o ancora facendo qualche
viaggio in luoghi già accuratamente predisposti per eccitare la sua illusione
di “godimento”? Non è in fondo vero, ormai, che se un godimento, come quello
culturale tutto sommato, è gratis, non è in realtà un “autentico” godimento?
Siamo ignoranti
come le capre e ce ne rallegriamo. Non siamo neanche più persone (e neanche personae!). Rassomigliamo
piuttosto a quell’idolo a cui abbiamo affidato il compito di guidare e riempire
di senso le nostre insipide esistenze
(insipiens: sapiens = ho sapore = so).
Come il denaro
siamo senza qualità ma capaci di rappresentarle potenzialmente tutte, curvati
al miglior offerente, sempre bendisposti a prostituirsi per un prezzo migliore,
orgogliosi strumenti e tubi digerenti…
