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Anche questa volta, come altre cinquanta volte dal 2008, la maggioranza l’ha sfangata. Ma sfangare non è sinonimo di governare, né significa essere capaci di farlo. Questo ormai lo intuiscono anche i quadri e le piante di Montecitorio. Lo si è visto, martedì, nella votazione dell’articolo 1 del rendiconto del bilancio statale, la novantunesima volta in cui il governo è andato sotto. E, più in generale, è evidente dalle lotte fratricide nel Pdl e tra i membri stessi del governo: una nemesi beffarda per chi ha giustamente rinfacciato ai governi Prodi una rissosità al limite del ridicolo. A meno che non si intenda porre la fiducia ad ogni seduta. L’unico orizzonte comune per la maggioranza è il terrore di ritrovarsi nel bel mezzo di uno scontro tribale, un regolamento di conti sulle ceneri del dopo Berlusconi (e del dopo Bossi). Il potere è l’unico collante. Venuto meno quello, sarà una guerra di tutti contro tutti. In questa fase, ogni parlamentare gioca le proprie carte perché consapevole che la conclusione del ciclo berlusconiano comporterà la fine di molte carriere politiche. E sa anche che questo è il momento di monetizzare. Pare che Denis Verdini sia diventato il filtro delle richieste dei malpancisti e delle generose quanto interessate offerte di chi non aspetta neanche di essere contattato per dichiararsi a disposizione.
Però non possono bastare 316 voti, se è stato dilapidato il capitale della più vasta maggioranza della storia del Parlamento italiano. Il baco che sta divorando il governo è al suo interno. Sardelli, Versace, Gava, Destro, ma anche Scajola e Nucara – che hanno votato sì tra mille distinguo e l’ennesima richiesta di un cambio di marcia – sono le facce di uno sgretolamento inarrestabile. Né possono bastare le poltrone da saldi di fine stagione: due nuovi viceministri, Catia Polidori allo sviluppo economico e Aurelio Misiti alle Infrastrutture, e due sottosegretari, Pino Galati all’Istruzione e Guido Viceconte (già all’Istruzione) all’Interno.
Nella prima dichiarazione dopo il voto, Angelino Alfano ha rivendicato l’esistenza di una maggioranza sia numerica che politica. Un atto quasi dovuto da parte del segretario del maggiore partito di governo, comprensibile ma poco convincente. Le richieste al premier di farsi da parte sono talmente tante e pressanti (da ultimi, anche Roberto Formigoni e Gianni Alemanno) che neanche il più ottimista dei berlusconiani può pensare di riuscire ad arrivare a fine legislatura. Semmai, la questione è un’altra, quella della preparazione delle liste. Perché andare al voto in primavera significherebbe farlo con l’attuale legge elettorale, salvo uno scatto di responsabilità e generosità che al momento non si intravedono. In barba al milione e passa di firme raccolte dal comitato referendario per l’abolizione del Porcellum. Anche il prossimo sarà un Parlamento di nominati. Molti parlamentari utilizzeranno gli ultimi giorni di Pompei per scansare macerie, dare prove di fedeltà, non fare gli schizzinosi se servirà una buona dose di cinismo per assicurarsi la ricandidatura.
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