La lettura che vuole Karol Józef Wojtyła (di cui ieri si celebrava il decennale della scompara) quale distruttore del comunismo europeo, è una “wishful thinking”, un artificio che non trova né potrebbe trovare accoglienza nella storiografia scientifica più rigorosa ed imparziale. Egli, al pari di Lech Wałęsa, Václav Havel ed altri ( e forse dello stesso Gorbačëv) , non è stato, infatti, una “causa”, bensì un “effetto”, sebbene di non trascurabile rilevanza.
Dopo l’illusione brezneviana, Il blocco sovietico (l’ “impero interno”, l’URSS, e l’ “impero esterno”, i Paesi satellite di Mosca) mostrò tutta la sua fragilità, la sua inadeguatezza, le sue deficienze economico-strutturali ed un “gap” ormai inaccettabile nei confronti di un Occidente in netta e definitiva ripresa dopo le crisi degli anni ’70, elementi che furono il vettore, unico e solo, del crollo (1989-1992) non appena il Kremlino scelse di alleggerire la sua opera di vigilanza e contenimento.
A confermare la secondarietà e la debolezza dell’influenza wojtyłiana, tre dati:
1) l’immobilità della situazione nelle democrazie socialiste durante i suoi primi anni di pontificato prima dell’avvento della perestrojka
2) la preponderanza dell’elemento cristiano-ortodosso e musulmano in URSS e nei Paesi dell’Est
3) la difficoltà di penetrazione della propaganda vaticana in contesti regolati dalla censura
Forse differente e più importante la figura di Ronald W.Reagan nel processo di sfaldamento del comunismo. Risulta infatti indubbio che la brusca impennata delle spese militari da parte di Washington abbia prodotto una risposa analoga a Mosca, mettendo così a dura prova la già fragilissima economica sovietica. A Reagan, inoltre, il merito di avere infuso nuovo ottimismo agli USA e all’Occidente dopo il non facile decennio nixoniano-carteriano.