Magazine Per Lei

A dream, a laugh, a kiss, a cry

Creato il 05 dicembre 2010 da Lacapa

Da una settimana esatta sono tornata a casa.

Da Edimburgo a Catania in dodici ore di viaggio, perché non so come mai – misteri delle agenzie – il mio volo faceva scalo prima ad Amsterdam e poi a Roma, arenandosi a Catania soltanto in tarda serata, dopo avermi costretta a svegliarmi alle sei del mattino.

Ho lasciato una citta bianca di neve, e mi sono ritrovata in un posto con 24° – misteri del clima globale.

Sul taxi che mi portava in aeroporto piangevo. Perché la Scozia è commovente: «Questi sono i grandi spazi!», dice Irvine Welsh in Trainspotting. Non è solo per le Highlands, per i colori, per la bellezza incontaminata, per Loch Ness, per le distillerie. È per tutto. Perché a creare il fascino di una regione intera contribuiscono tanti fattori: la gentilezza degli scozzesi, la loro cordialità, il livello di alcol che hanno nel sangue a qualunque ora del giorno, l’ordine delle loro città, la pulizia delle loro strade. La sicurezza che riescono a trasmetterti.

Io tornavo a casa, la sera, da sola. Le due, le tre del mattino, a piedi. Nessuno che mi infastidisse, nessuno che fosse eccessivo, nessuno che attaccasse bottone in maniera volgare, nessuno che mi facesse venire voglia di urlare.

Edimburgo, per me, è stata i rapporti umani.

Le mie coinquiline spagnole, ad esempio. Di Madrid, amiche da quando avevano otto anni. Ci pensavano da un po’, dopo aver visto una trasmissione in tv, e si sono dette che sarebbe stato bello trasferirsi per un po’ in Scotland. L’hanno detto a tutti gli amici, ai loro genitori, ai parenti: non ci ha creduto nessuno. Quando avevano i biglietti in mano e hanno cominciato a preparare le valigie, a quel punto e non prima, chi stava loro attorno ha realizzato che sarebbero partite. E sono ancora là, ad una porta di distanza l’una dall’altra, a parlarsi in inglese per migliorare la pronuncia, a studiare, a lavorare e a divertirsi.

Ci ho passato pomeriggi interi, con loro. Non importava essere fuori o in casa, bastava raccontarsi cos’è la mafia davvero, perché il terrorismo nel Paìs Vasco fa paura, quanto sono belli gli amori passati e qual è il supermercato migliore dove fare la spesa. Le mie coinquiline spagnole sono due ragazze straordinariamente in gamba e straordinariamente solari, e la notte prima che io partissi mi hanno scritto una lettera e me l’hanno lasciata sotto la porta. «Ti penseremo ogni volta che nevicherà», hanno scritto, perché sapevano che io la neve non l’avevo mai vista in vita mia, prima di lasciarmela cadere addosso, una notte, su Leith Walk. E loro erano con me.

Oppure il bergamasco e il milanese, solo che il primo non è di Bergamo e il secondo non è di Milano. Il Bergamasco è stato il mio cuoco ufficiale, il coinquilino migliore in cui potessi mai sperare: avevo la febbre e mi portava l’aspirina, non avevo molta fame e mi bussava in camera perché aveva preparato un piatto di risotto allo zafferano anche per me, non mi andava di uscire e lui mi diceva che mi aspettava: «Dai, su, dieci minuti, ti prepari e andiamo». E andavamo. Mi ha mandato un messaggio, a tarda notte, il mio ultimo venerdì (sarei ripartita sabato mattina): «Lascio la porta della mia camera aperta, non bussare, entra. Non andare via senza salutarmi, per favore». Non ho bussato, sono entrata. Non sono andata via senza salutarlo. Era mezzo addormentato e mi ha abbracciata e basta, poi mi ha scritto un sms e l’ha riempito di altre cose che il sonno gli aveva fatto scordare.

Il Milanese l’ho conosciuto il primo giorno e ce ne ho passati insieme venti. Ogni sera, ogni pomeriggio, sempre. Cene italiane a casa mia, sbronze epiche in discoteca, prese in giro e discussioni più serie. Mi sono affezionata anche a lui, che aveva avuto un flirt con una mia compagna di classe del ginnasio e ci siamo chiesti quanto cazzo sia piccolo questo mondo.

«Ohi, sono in cucina. Vieni a salutarmi?», sempre quel venerdì notte. Io ero in camera, esausta, m’ero addormentata sulla moquette mentre tentavo di mettere qualcosa in valigia.

L’altra spagnola è fantastica pure lei. L’ho conosciuta in un pub la prima sera, quella notte le hanno rubato la borsa e la giacca. Io l’avevo già salutata per seguire Dubliner, e quando il Milanese mi ha raccontato quello che è successo ero dispiaciutissima, perché lei aveva lavorato per potersi permettere una gita lunga a Edimburgo. E lavorava pure là, al Rose Street Take Away. «It’s disgusting», ripeteva in continuazione. «The smell. Oh my God, the smell. Horrible. I would never eat anything there», continuava. Ma per quaranta sterline al giorno se lo faceva andar bene, quel posto lercio che puzzava di fritto e aveva la pizza in vetrina.

Il siciliano è un artista, ha vissuto sei mesi a Cambridge poi ha preso una macchina, ha visto Edimburgo, se n’è innamorato e ci s’è trasferito. Non m’aveva fatto chissà quale bella impressione, all’inizio, poi ho capito che era una gran persona, lui, e io adoro passare il tempo con le grandi persone.

Un giorno faceva freddo e le Dears avevano sbagliato il posto dove dovevamo vederci. Lui mi c’ha accompagnata ed è rimasto con me per mezz’ora, a lamentarci del tabacco che era caro e della discoteca, sempre la stessa, che puzzava di piscio e birra versata.

Del tedesco m’è rimasta una spilla e un racconto divertente. Per una settimana è stato il mio +1, quello con cui concludevo le serate, quello che mi dedicava “Wonderwall”, che mi offriva da bere e – sbronzo – mi parlava di Baudelaire. Poi io me ne andavo e lui baciava un’altra, salvo poi scusarsi e dire che aveva fatto tutto lei. «I missed you, yesterday night», mentiva lui. «So you kissed another girl to forget your pain», fingevo gelosia io, pensando a un modo per fargli capire che aveva proprio sbagliato tutto. No, non era l’altra ragazza, era la bugia che mi dava fastidio, il fatto che mi scrivesse cinque/sei messaggi al giorno, esclusi i “buongiorno” e le “buonanotte”, e che sproloquiasse di sentimenti e cose che, in verità, non esistevano.

Sì, gli piacevo davvero, non dico di no, però s’era messo in testa che il gioco lo conduceva lui, e mica era così che funzionava. Deve averlo capito quando gli ho detto che non gli conveniva addormentarsi, perché tanto gli davo quindici minuti; o quando invece di farlo rientrare in casa per restituirgli il cellulare che aveva scordato da me ho chiesto al Milanese – che era in cucina col Bergamasco – di scendere in strada e portarglielo; oppure quando i suoi sms con richieste di lacrimevoli addii e le sue telefonate non hanno mai ricevuto risposta.

Però la spilletta che m’ha regalato me la son tenuta. È come una specie di mania: da Edimburgo ho riportato in Italia bottiglie vuote, accendini che non funzionano, mappe, scontrini, biglietti e depliant. Come se potessero, in qualche maniera, restituirmi un pezzo di una città in cui ho lasciato il cuore. Una città che vale la pena di vedere, almeno una volta nella vita, anche soltanto il 25 novembre di ogni anno, quando spengono tutte le luci e poi le riaccendono in contemporanea, assieme alle decorazioni di Natale, c’è la musica allegra delle feste e ci sono i fuoci d’artificio col Castello come sfondo.

Una città che se potessi ci tornerei domani, perché è stata come nella canzone dei The Temper Trap, “Sweet disposition”: «A dream, a laugh, a kiss, a cry». Un sogno, una risata, un bacio, un pianto.


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