À l’ombre(2006) è il cortometraggio precedente al debutto nel lungometraggio per il quebechiano Simon Lavoie, regista classe ’79 che ha già firmato opere sulla carta abbastanza interessanti come Laurentie(2011) o Le torrent (2012). Questo breve lavoro si occupa di illustrare la condizione di una mamma finita in un centro riabilitativo (o in un carcere femminile, non è specificato) che rischia di non poter vedere più il figlioletto per evidenti questioni legali.
La messa in scena è molto scarna, ridotta all’interazione attore-ambiente (ce lo suggerisce l’incipit con i clienti del bar che pian piano escono dal locale e lasciano la madre sola insieme ai suoi tormenti), caratterizzata da tonalità tenui con interni anonimamente bianchi ed esterni privi di calore; Lavoie non si concede alcun accento musicale spingendo al contrario su un dilatamento dei tempi dal quale si genera una siccità discorsiva che perlomeno si carica di una certa intraprendenza, se il regista avesse convenzionalmente utilizzato le parole il rischio sarebbe stato quello di procedere per ovvietà, imboccando chi guarda con le questioni genitoriali che invece così sanno tradursi anche soltanto con un semplice gesto (si veda il rifiuto che il bambino ha nei confronti della mamma), allo stesso tempo, a causa del torpore che innegabilmente ammanta il film, non è esattamente immediato il calarsi nell’oscurità millantata dal titolo, quel buio ombelicale che dovrebbe riguardare i due personaggi sullo schermo rimane un proposito in fieri, macchiato da una lungaggine che gradirei mi venisse spiegata (perché la donna si fuma una ciocca di capelli del fanciullo?), e otturato dal finale (a cui piacerebbe essere) adombrante dove la sottomissione saffica con battuta incorporata fa perdere due o tre tacche di credibilità. C’è della tecnica da manuale, manca una degna sostanza.