Quando ero ragazzino vissi un episodio stravagante e divertente. Una prozia piuttosto bizzarra aveva piacere di avere gente a tavola la domenica e si offendeva se non ci si andava almeno due volte al mese. Il problema era che preparava per l’evento sempre il medesimo menù: una sorta di timballo che ancor oggi sospetto essere prodotto di un accurato riciclo settimanale e un arrosto di carne imprecisata che ufficialmente era manzo, ma qualche volta avrebbe potuto anche essere muflone deceduto per vecchiaia. Non che il cibo fosse cattivo, ma insomma mancava la sorpresa, oltre al dolce che doveva necessariamente portato dagli ospiti, preferibilmente diplomatiche che a me proprio non piacevano.
Non so chi le fece notare che sarebbe stato bene cambiare ogni tanto il menù e per lei dev’essere stata un’offesa sanguinosa, tanto che meditò una terribile vendetta. Una domenica invece del timballo giunse in tavola un piatto di miserande farfalline con una salsa che ancora sapeva di conserva e per secondo un baccalà con patate così pallido, salato, stopposo e insapore da far venire il dubbio che si trattasse di materia inorganica. In compenso a fine pranzo dove ognuno accampò pretesti per assaggiare il meno possibile, le diplomatiche sparirono con velocità impressionante.
L’episodio mi è ritornato in mente leggendo i giornali di questi due giorni dove una serie di soggetti, dalla Cei ai Casini, parla della riforma del lavoro, ossia della sottrazione di diritti, non affrontando minimamente il tema, ma sostenendo che “finalmente si fa una riforma”. L’immobilismo è stato così greve e pesante, supportato dalle paure, dalla mancanza di idee e di coraggio, dall’ipocrisia densa come un pecorino, dagli interessi dei potentati, che ora si riesce a spacciare qualsiasi cambiamento, anche il peggiore, il più raffazzonato, il più ingiusto, il più fallimentare , come una cosa comunque buona e necessaria.
In realtà proprio perché il Paese è stato così fermo che il cambiamento dovrebbe essere sensato e lungimirante: invece si cerca di fare ciò che si diceva sarebbe stato buono e giusto negli anni ’80, secondo il clima di allora, continuando a secondare il modello perdente della nostra economia. Lo si cerca di fare dentro un contesto sballato: perché togliere tutele è sempre pessimo e ingiusto, ma è anche del tutto incoerente in presenza di forti limitazioni di bilancio e di arretramento economico, un semplice e terribile volano di declino e di impoverimento, come del resto ha già sperimentato il Portogallo. Ma soprattutto quello del mercato del lavoro è solo un falso cambiamento: le uniche cose che sono state fatte negli ultimi 15 anni sono quelle che riguardano la “flessibilità” ovvero la precarizzazione, senza che questo abbia avuto alcun effetto sul rilancio dell’economia. Anzi è facile vedere che la stagnazione è figlia di queste manomissioni, semplicemente perché è stata l’alibi fornito al sistema produttivo per cercare di recuperare competitività sui salari e sull’insicurezza, piuttosto che sul prodotto e con gli investimenti.
Del resto a parte la staffilata di tasse e l’aumento inverosimile oltre che improvviso dell’età pensionabile, necessari per aderire alla disastrosa filosofia della Bundesbank, il prodotto interno dell’esecutivo, al netto degli annunci mediatici e delle innumerevoli prese in giro, è praticamente zero: manovre per le quali anche un ragionere sarebbe stato eccessivo . Di fatto, tra misure ovvie eppure raffazzonate, rimane solo il tentativo di normalizzazione e di futura svendita suggerita dalla finanza e dai centri di potere locali. Un abbaiare di cani Pavlov, col pedigree, ma profondamente ineducati alla socialità. Cosa che è diventata persino ridicola da quando questi personaggi minori si sono trovati improvvisamente capobranco. Ma davanti a Marchione la salivazione è sempre abbondante ed evidente.
Per questo mi fa venire i brividi quando sento le ” cape fresche” della politica e del potere parlare di cambiamenti necessari. Il primo dal quale cominciare sarebbe proprio quello di vederli sparire dall’orizzonte. Loro e il loro tecnici di riferimento, insomma il baccalà con patate.