Li osservo tutti insieme che urlano terrorizzati verso le telecamere e non si capisce cosa stiano dicendo. Nemmeno le didascalie sulle foto stampate su enormi cartelli, uomini con veli e barba e talvolta occhiali, è tutto scritto con segni incomprensibili. Non è chiaro se quelli sono morti, sono prigionieri, sono carcerati, sono torturati, sono presidenti che vorrebbero avere o vorrebbero impiccare. Poi ancora uomini, per lo più, voltati verso un palco in una piazza così gremita sotto il sole che basterebbe un gesto frainteso per far saltare tutto in aria. L’impressione è che ci sia una bomba da qualche parte e qualcuno, altrove, con il detonatore in mano. Sul palco sono in tre, con fogli e un megafono. Gridano frasi brevi che vengono ripetute meccanicamente dalla folla. Potrebbero essere slogan, ma sembra lo stesso pattern in una sequenza che ritorna all’infinito. O una preghiera, quello è un’immenso luogo di culto improvvisato per chi fa le riprese e poi le manda dall’altra parte del mondo, per far conoscere, per fare capire. Ci sono anche delle donne. Le prime sono dietro due uomini che qualcuno di un’altra emittente ha intervistato per noi, con le mani giunte tengono a bada i loro teli di cui sono avvolte per il vento. Gli uomini, potrebbero essere i loro uomini, sono così agitati nel dare le risposte che le loro esclamazioni trasmettono solo la follia. C’è qualcosa da risolvere che è talmente grande che non basta la forza di tutti i convenuti a quel rito collettivo. Altre donne sono in linea dietro a uno striscione che stanno sorreggendo, segni neri, rossi e verdi di fianco a qualche parola in inglese su cui i cameraman non indugiano a sufficienza. Altrove bandiere che bruciano, bandiere calpestate, bandiere e bambini, guardano il mondo che vuole chiedere ma non capiscono cosa.
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