La prossima volta che dicono che il popolo italiano che vota Berlusconi è un popolo di casalinghe ignoranti o evasori delle tasse, ricorderò che quel popolo (ammesso e non concesso che un popolo possa essere schematizzato in una categoria politica o identificato in un uomo) è quel popolo che ha votato al Festival di Sanremo per il Professor Vecchioni, di probabili simpatie sinistre con moglie viola e girotondina a seguito.
E se andiamo a leggere (cantare no, vi prego!), il testo della sua canzone, la retorica antiberlusconiana è sottile, ma c’è; quasi un flebile rivolo che impregna il tipico e smielato sentimentalismo sanremese. Certo, può essere solo una mia interpretazione o una mia fissazione, ma a essere politicamente maliziosi, è difficile non vedere certi significati. Guardiamo un po’ le strofe. In particolare due mi hanno colpito:
… per tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero / così belli a gridare nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero…
Beh, come non si può pensare alla riforma dell’Università e alle proteste di piazza che hanno infiammato questi ultimi mesi? Alle varie indignazioni moralistiche e pseudofemministe che ci hanno smutandato un giorno sì e l’altro pure?
Il vero è che ancora una volta ci ritroviamo con una cultura (seppur di bassa lega come può essere quella delle canzonette) impregnata di sinistrismo d’annata, del quale sinceramente non sentivamo la nostalgia. Ci ritroviamo con il tipico bagaglio della sinistra sessantottina, protestataria più per moda che per necessità, la quale, attraverso la canzone, cerca di far passare messaggi di conservazione, più che di rivoluzione; rivoluzione che forse aveva un suo senso politico negli anni ‘70, quando Vecchioni è nato artisticamente, ma che oggi appare una velleità vintage della borghesia radical chic, timorosa – ormai è assodato – di perdere diritti e privilegi acquisiti proprio in quegli anni e grazie a quelle proteste sulle quali ha dominato la scena culturale e sociale fino a oggi.
Una sinistra radical chic che non riesce proprio ad ammettere di essere il passato. E proprio perché non vi riesce, cerca di arrivare al cittadino attraverso la strumentalizzazione dell’effimero per eccellenza; della banalità fatta a canzone. E questo, con il malcelato obiettivo di trasmettere, anche attraverso la strofa insipida e prevedibile (spesso negli ultimi decenni avvicinata e additata come esempio fulgido della decadenza berlusconiana) l’idea malsana di un’Italia fatta di persone che hanno cultura e cervello, e persone invece che ne sono prive. Naturalmente poi sappiamo bene qual è l’Italia che appartiene alla prima categoria, e quella invece che appartiene alla seconda.
È paradossale. Ma in un Festival che ha voluto (o preteso di) celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia vince la canzone «contro» del reduce di una pletora di cantautori impegnati che hanno dominato la scena tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, e che per questo non sono mai stati capaci di rinnovarsi e di far crollare anche dentro i loro pezzi il muro di Berlino ideale che ancora separa il popolo del nostro paese. Quella di Vecchioni non è sicuramente una bella canzone d’amore, e credo non rimarrà nella storia del Festival, e forse nemmeno nella storia personale del cantautore. Ciononostante è comunque una canzone che continua a esaltare la distanza ideale tra coloro che si ritengono portatori di libertà e sono il simbolo del moralmente corretto, e coloro che invece, consapevolmente o inconsapevolmente, rimangono ostaggio della banalità mediatico-televisiva che annichilisce le menti e le intorpidisce; quella che, guarda caso, ha però incoronato Vecchioni re indiscusso della canzonetta italiana. Almeno per quest’anno.
Autore: Il Jester » Articoli 1379 | Commenti: 2235
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