Personalità illuminata(e illuminante) si racconta a 360 gradi,senza veli.
Gustatevi questa "lezione" di poesia sublime e nobile.
-Massimo, partiamo da DIGESTO, raccolta di prose edita da Tormena Edizioni. Si tratta di testi che coprono un arco temporale di 14 anni, riscritti sotto forma di un unico romanzo. Come è nato questo progetto? Odio la dispersione. Il libro sono io e non c’è finzione. Sono proprio io. Sono io che ho deciso di non disperdermi, dopo anni. La raccolta corregge tutto e assimila tutto il passato, tiene quello che si può tenere e lascia il resto (e il resto era tanto e senza luce). In realtà non c’era un progetto, ma una sola cosa da fare: una necessità.
-DIGESTO è un titolo giocoso, una boutade: allude alla digestione (perché assimila e consuma) ma anche ai “Digesta”, frammenti di opere di giuristi romani realizzati su incarico dell’imperatore romano Giustiniano (quindi una sorta di sistemazione ordinata del tuo materiale). 14 anni di parole, pensieri, emozioni: un arco temporale molto lungo. Immagino sia stato difficile scegliere i testi per questo libro; che sensazioni hai provato nel rileggere prose di tanti anni fa? E soprattutto, quanto è cambiato Massimo come artista (e ovviamente come uomo)? Massimo è stato un giovane magro, serio, triste. Non un nerd, però; il corpo aveva i suoi segni particolari, e i vestiti erano giusti. Praticavo la poesia in una forma molto vitale e con uno stile anoressico. Il risultato è che io parlavo di sesso e malattie – tutta realtà – e non si capiva, perché tutto si contraeva in uno stile che fu chiamato “l’informale freddo”. Poi lo abbandonai, perché mi faceva schifo. Abbandonai le cerchie dei poeti. Diventai un traditore degli amici, ma non li consideravo più i miei amici. Pensavo: non hanno un pubblico, e io voglio averlo; sono solo poeti, e io non sono solo un poeta; sono nevrotici, ma io sono infelice (e lo sono per ora, non per sempre), non nevrotico. Ho dei desideri e molta rabbia – pensavo tutto questo. E ancora: non sono ateo, non sono materialista, non sono comunista e soprattutto NON SONO FREDDO, ragazzi, io NON SONO FREDDO. Nel frattempo cominciavo ad avvicinarmi al teatro e al cinema: sono zone espressive dove si lavora solo per il pubblico. Insomma il corpo si metteva in scena e in gioco. Quando rileggo i testi di 10 anni fa, voglio solo due cose: o distruggerli o riscriverli, non c’è altro da fare.
-I testi del DIGESTO hanno una ritmica incalzante, adatta alla recitazione di monologhi e improvvisazioni sul palcoscenico. E qui viene fuori la tua vena attoriale (perché sei tu stesso un attore). Allora ti chiedo, stai pensando di ricavare una pièce dall’opera (magari con te come protagonista on stage?) Quale disciplina senti più tua: la recitazione e quindi l’esposizione sul palco oppure la drammaturgia, sempre creativa ma più defilata? Non sarà una pièce, ma una situazione, o una serie di situazioni che possono nascere in qualunque momento, improvvisandole. La disciplina che preferisco è l’esposizione, in generale: non solo sul palco. Ma non per narcisismo. Lo so, è un punto strano. Diciamo che è una vocazione.
-Il contenuto del DIGESTO è molto eterogeneo e composito:si parla di solitudine, di infanzia, della crisi che morde e non dà tregua, di amore, di viaggi. Qual è il fil rouge che lega tutte queste tematiche? E quanto c’è di autobiografico in ogni testo? Un artista che si mette completamente a nudo si espone molto; come ti rapporti alle critiche e ai commenti del pubblico? Ti creano preoccupazione, angoscia o ti lasciano indifferente?
Il filo rosso è l’esperienza, quindi l’io, e allora la mia persona. Tutto quello che faccio è autobiografico, sempre. Odio l’invenzione, a meno che non serva a far ridere il bambino e la bambina. Non c’è invenzione, qui, e nel Digesto è tutto reale, più o meno chiaramente. I nomi nominati sono tutti veri. Quanto alle reazioni: c’è il giudizio e c’è la passione. Il giudizio è una cosa da critici, ma io cerco un pubblico reale – si tratta di corpi, nella stessa guerra in cui mi trovo io, nella stessa lingua e nella stessa crisi –, e quindi cerco reazioni di amore o di odio, roba forte. Il brodo intellettuale che giudica o recensisce non mi riguarda più.
-Dici “Scrivere è solo un’arte applicata. Allora bisogna applicarsi, è chiaro: ma si fa fisicamente”. Il linguaggio del tuo libro è a tratti violento e scurrile, ma anche sensuale, acido, drammatico, cristallino. Parli di “fisicità”. Da cosa si parte quindi per costruire un testo? Segui pedissequamente un metodo o ti lasci andare all’estro del momento? Non c’è metodo, solo orecchio. Si segue un ritmo: se no, che amore sarebbe? Nessun amore. Il linguaggio è quello che si pratica nelle cucine dei ristoranti, nelle portinerie diurne della Telecom, nella portineria notturna della clinica, nei magazzini delle biblioteche. Ho conosciuto questi ambienti. Li ho conosciuti quando avevo il viso delicato e la cultura umanistica. Bene: lì non c’era niente di delicato, niente di umanistico, proprio niente. Però devi resistere, anche se hai la faccia del Gentiluomo di Lorenzo Lotto. Sollevi 50 kg di roba come gli altri e vedono chi sei. E mentre lavori prendi un po’ il loro modo di parlare, perché è reale.
- DIGESTO è un’amalgama di elementi. Utilizzi molto la Sinestesia, figura retorica che arricchisce la percezione della realtà sfruttando analogie che provengono da piani sensoriali diversi. La poesia riesce a svelare i misteri che si nascondono dietro le apparenze, cogliendo CORRISPONDENZE tra cose apparentemente lontane. Cito il poeta maudit Rimbaud: “Je dis qu’il faut être voyant, se faire voyant. Le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens”. Il poeta è veggente attraverso la ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Questo nell’Ottocento. Ma per Massimo Sannelli chi è oggi il Poeta e cosa rappresenta la Poesia nel 2014? Il poeta non sono io. Sono anche un poeta, ma non sono solo un poeta, e mi farebbe schifo essere solo un poeta. Proprio così: schifo. La poesia non rappresenta niente, se non l’autore con la sua esperienza, vitale e musicale. Allora bisogna che ci siano un suono e una vita. Una carezza è una poesia, se è data nel momento giusto. So che cosa significa, non è niente di strano.
-La crisi non solo economica ma anche di valori. Questo è uno dei temi chiave del DIGESTO. Sei cresciuto negli anni 90, periodo in cui si respirava ottimismo e speranza nel futuro. Ora imperano disillusione, frustrazione e scoramento generale. Pensi che internet, le nuove tecnologie e i social network abbiano contribuito ad impoverire la creatività, le idee e la voglia di emergere dei giovani? A tuo avviso si potrà trovare una soluzione per uscire da questo impasse? Il problema non è la creatività. Il problema è un altro: come sopravvivere e come essere felici. Non tutti sono artisti ed è giusto che sia così. Ma tutti hanno la pancia e le emozioni, e vogliono appagarsi, e fanno bene. Le nuove tecnologie hanno modificato in dieci anni il concetto di amicizia, per esempio. Modificando l’amicizia, cambiano altre due cose: la famiglia e il pudore. La soluzione è la povertà, non ce n’è un’altra.
-L’infelicità è stata una grande Musa che ha distrutto molti artisti: cosa ne pensi del binomio genio e sregolatezza? Da profana ti chiedo: ma è vero che si è piu’ creativi quando si è malinconici, depressi, inquieti e avviliti? La gioia e la felicità non sono “rock” nel mondo dell’arte? Stare quindici ore ad una scrivania non è naturale. È impossibile che lo sia. Dedicare centinaia di ore di vita ad una situazione formale, come l’arte – e in particolare quella delle parole –, non ha niente a che vedere con la vita. I capolavori occidentali sono capolavori nevrotici, ossessivi, compulsivi, drogati. Ma il mondo non è solo l’Occidente, che ora naufraga. L’artista occidentale è un immenso simulatore; ma arriva dove vuole arrivare: ad autodistruggersi praticamente, dopo aver operato formalmente. Senza contare il potere della parola: perché ogni previsione su di sé si avvera, come le bastonate che Pasolini sogna e poi lo raggiungono. Bisognerebbe scrivere altre profezie, ma buone, e si avvereranno, purché la vita sia coerente con le nuova profezie. Ho anche tradotto Nostradamus, una volta, senza capirlo: puri suoni, era bello.
-E a proposito di grandi infelicità, tu hai dedicato un libro ad un personaggio molto amato, l’Imperatrice Elisabetta d’Austria, conosciuta ai più con il nomignolo di Sissi(grazie anche al film con Romy Schneider ):”Una rapida ebbrezza-i giorni genovesi di Elisabetta d’Austria”, curato insieme a Vittorio Laura. Una donna estremamente affascinante, amante della bellezza, ossessionata dalla forma fisica e intollerante all’etichetta di corte. Una donna forte e fragile, determinata e vulnerabile, che ha molto amato e molto sofferto. Insomma, una figura piena di contraddizioni. Perché hai scelto proprio lei, cosa ti affascina maggiormente della Kaiserin Elisabetta? Amo la sua solitudine, perché è una solitudine disperata e ironica. Questa solitudine non poteva incarnarsi in un corpo meno bello del suo. Bisognerebbe essere perfetti come lei, per capire il suo distacco. Non è vero che “ogni perfezione va distrutta”, come scrisse Giuliano Mesa: al limite, la perfezione si distrugge da sola, come l’artista ingobbito. Ma la Kaiserin non si è distrutta. Finché ha potuto, si è messa negli occhi tutta la bellezza che poteva sopportare.
-Veniamo ai tuoi progetti futuri. Cosa bolle in pentola per Massimo Sannelli? Libri, progetti teatrali, ruoli da attore; in quali vesti ti vedremo prossimamente? Tutte le cose che dici bollono, contemporaneamente. Non c’è mai un progetto solo, se no viene la morte. I progetti sono tanti: ricerche letterarie, azioni teatrali, film, poesie – sempre loro – e monologhi. Tutto. E la regìa, prima o poi. Più prima che poi.