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A un anno di distanza dal mio ultimo intervento sulla questione…

Da Matteotelara

A un anno di distanza dal mio ultimo intervento sulla questione…

Nella sua breve ma illuminante prefazione a The Best American Short Stories 2011 Heidi Pitlor, storica editor della collana, ci offre interessanti indicazioni sulla direzione che pare aver intrapreso la fiction in America.
Dopo anni in cui l’esplosione delle scuole di scrittura creativa aveva determinato una sorta di generale uniformità di soggetti e modalità d’esecuzione – suggerisce la Pitlor – sembra che qualcosa di nuovo abbia cominciato a muoversi nel sottosuolo della produzione letteraria d’oltreoceano: “contenuto drammatico, messa in scena non tradizionale e forma innovativa non significano automaticamente buona scrittura”.
Allo strapotere della forma e dello stile, e alla ricerca ossessiva di contenuti spiazzanti, avrebbe quindi cominciato a far seguito l’idea che ci sia una qualità letteraria che preceda, diciamo così, le scelte stilistico-contenutistiche dell’autore.
“In una storia cerco immediatezza e freschezza del linguaggio se non addirittura – più di ogni altra cosa – diminuzione del linguaggio stesso” prosegue la Pitlor, ricordandoci che lo scrittore debba essere qualcuno che quasi si conosce (che quasi si riconosce) ovvero qualcuno di cui ci si fida, “non un professore, non un acrobata, non un pattinatore che volteggia come un tornado al centro di un freddo e scuro anello di ghiaccio”.
The Best American Series, collana edita da Houghton Mifflin Harcourt, è per chi non lo sapesse una pubblicazione di vasto seguito che annualmente si propone di portare al grande pubblico le migliori opere di short-fiction e non-fiction prodotte in Nord America (USA e Canada).
Ogni volume della serie parte da una base di centinaia di lavori usciti un po’ ovunque su riviste, periodici, giornali, raccolte, laboratori di scrittura creativa e siti web, ad opera di autori affermati, emergenti, di nicchia e sconosciuti, fino ad arrivare a un distillato di una ventina di opere scelte di volta in volta dal guest editor di turno.
Quest’anno Geraldine Brooks, che col suo lavoro di lettura e selezione ha reso possible questa The Best American Short Stories 2011, pare non aver dubbi: “il plot (la trama o l’intreccio, che dir si voglia, a seconda che si segua o meno la famosa distinzione operata da Propp) ha chiaramente perso importanza per la maggior parte degli scrittori americani di short fiction”.
Nell’Introduzione che segue la Prefazione della Pitlar, Geraldine Brooks specifica tale convinzione con vari esempi, e ci dona maggiori strumenti per comprendere le linee editoriali in base alle quali la selezione di queste storie è stata da lei operata. Per quanto esista una scrittura di grande qualità, intelligente, cerebrale, astuta, “che comunque ammiro” dice, “come ammiro l’abilità tecnica di un acrobata al Cirque de Soleil”, è la capacità di smuovere, quella di muovere e di commuovere, è l’effetto quasi fisico che certe storie provocano in chi le legge (“il rimescolio del sangue…”) a determinare il valore di un’opera rispetto a un’altra, magari formalmente più matura, magari esteticamente più ragionata, magari tecnicamente meglio eseguita.
La maggior parte delle short stories presenti in questa collezione, dunque, sono prima di tutto caratterizzate dalla capacità di ogni scrittore di comprendere i propri personaggi e di restituirci i mondi in cui vivono. Un’altra caratteristica è il ritorno a una sorta di normalità, diciamo così, ‘differente’, non tanto con vicende che si svolgono in camere, cucine, scuole, cortili (luoghi in cui passiamo gran parte delle nostre vite, certo, e in cui sono state ambientate la maggior parte delle storie uscite negli ultimi anni, ma che alla lunga lasciano un senso di claustofobica ripetizione in chi legge) quanto con l’idea che le storie (come nella migliore tradizione giornalistica) vadano ricercate (e trovate) nella strada, non nel chiuso confortevole delle proprie stanze.
Geraldine Brooks suggerisce di caricarsi lo zaino in spalla e andare dove si può e come si può, meglio se in un luogo dove ci si ritrova costretti a pensare in una lingua e a fare la spesa in un’altra: “trovatevi un lavoretto. Affittate una camera. Datevi un’occhiata attorno. Fate qualcosa. Se non funziona, fate qualcos’altro. Di qualunque cosa si tratti, potrete un giorno usarlo nelle storie che scriverete”.
Le parole della Geraldine, al di là del fatto che le si condividano in toto o meno, paiono delineare meglio il senso di quella ‘freschezza’ di cui Heidi Pitlor parlava nella sua introduzione: l’idea di una creatività che vada nutrita in primo luogo vivendo il mondo di cui si scrive e poi leggendo ciò che ne è stato da altri scritto, ovvero l’idea di una letteratura e di uno story-telling che lascino da parte gli eccessi e l’attenzione alla tecnica a cui ci hanno abituato gli ultimi anni d’indottrinamento creativo (insieme a quell’attenzione alla forma che, soprattutto in Italia, ha costituito più un limite che una risorsa per le nuove generazioni) a vantaggio di scritture forse meno precise, forse meno elaborate, forse più imperfette, forse più perfettibili, ma vivide, respiranti, capaci di mettere in atto un cambiamento e una riflessione negli occhi, nel sangue e nelle menti di chi legge.
Alla luce di questo poco importa se molte delle storie contenute in questa raccolta non mantengano le aspettative (lo ammetto: me ne sono piaciute la metà, ma ne ho davvero apprezzato solo un terzo), quello che davvero importa è l’attitudine alla ricerca, la voglia di rinnovarsi, il senso della sfida e la mancanza di paura che ancora una volta sembrano caratterizzare il mondo editoriale d’oltreoceano, insieme alla possibilità che viene data, anche grazie ai nuovi mezzi di diffusione – vedi internet – a scrittori emergenti o in cerca di contratto di apparire su importanti pubblicazioni in cartaceo.
A un anno di distanza dal mio ultimo intervento sulla questione (ne avevo parlato qui a proposito di Best New American Voices 2010) mi pare che poco o nulla sia in questo senso cambiato in Italia, e si continui a insistere su una produzione di genere (per carità, niente di contrario al genere) o attenta alla corretta ‘forma’ (per carità, niente di contrario alla forma) o al contenuto di facile presa (dio protegga il contenuto!) o comunque d’impostazione conciliante, più che all’intima forza di una storia e alla sua capacità di fare quello che ogni racconto deve saper fare: costituire un momento di epifania, un momento di verità in grado, alle volte, di mettere addirittura in discussione le scelte, i pensieri, le convinzioni, financo la vita stessa di chi legge.
Mi si rimprovererà d’aver usato termini e concetti quali ‘letteratura’, ‘vita’, ‘emozioni’, cose sulle quali nel Belpaese si affilano da sempre le unghie occupatissime della retorica e sulle quali certi addetti ai lavori costruiscono da anni le loro argomentazioni, come se fosse la discussione, insieme alla teoria che la giustifica, l’unica cosa in grado di dar valore a un’opera letteraria, fin quasi, talvolta, ad arrivare a farne le veci.
Dalla morte di Calvino in poi mi pare (ma potrei ovviamente sbagliarmi) che abbiamo progressivamente cominciato ad aver paura di quella ‘leggerezza’ tanto cara all’autore delle Lezioni Americane, confondendola col territorio vasto e piatto della genericità, e così facendo abbiamo finito per non essere più in grado di vederci – e di raccontarci – se non nei termini della ‘pesantezza’ da un lato o della ‘superficialità’ dall’altro.
Citando Chekov, uno degli autori di The Best American Short Stories 2011 riassume l’intera questione in una frase che ai più parrà risaputa (figuriamoci…) ma la cui ovvietà, a ben vedere, non contiene nulla di scontato: “ciò che tutte le grandi storie sanno catturare, anche nella loro brevità, è il momento. Quel momento in cui niente è davvero accaduto ma tutto è irrimediabilmente cambiato”.
Ecco, sull’altro lato del mondo, mentre faccio la spesa in una lingua e penso in un’altra, andando al lavoro su un autobus pieno di facce che non conosco, sento che un altro di quei momenti è appena passato.


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