Was ist häßlich? Che cos’è il brutto? Questa fu la domanda che Franz Wichoff, eminente componente di quella che la storia dell’arte chiamò “Scuola di Vienna” (Wiener Schule der Kunstgeschichte), pose e alla quale volle rispondere dinnanzi a un’incredula e scettica platea riunitasi nell’aula magna dell’Associazione Filosofica della capitale austriaca. Cos’è il brutto? E soprattutto, nel giudicare la bruttezza di un’opera, quanto i retaggi culturali e iconici sono fuorvianti e divengono ostacolo nel riconoscere il momento del passaggio dall’antico al moderno, il momento dell’evolversi umano e artistico? L’anno era il 1900 e si era chiamati, in quella sala, pubblicamente, a dibattere su un argomento che stava animando sempre più i salotti, i café e i luoghi dell’élite Viennese: lo scandalo successivo alla presentazione dei pannelli delle decorazioni pittoriche per l’aula magna dell’università di Vienna. Il ciclo pittorico, del quale ci restano solo alcune riproduzioni in bianco e nero anteriori alla seconda guerra mondiale, commissionato all’artista Gustav Klimt, aveva suscitato nel pubblico uno scalpore e, in alcuni casi, un disgusto senza precedenti.
All’inizio del secolo, in ambito artistico e non solo, nella capitale austriaca sono in atto uno scontro, una rivoluzione, una divisione vera e propria: la classicità, la retorica e l’elegante iconografia dagli echi imperiali, stanno venendo in contatto con quella che sarebbe stata la rivoluzione dell’anima e della passione portata avanti da artisti come il suddetto Klimt, Egon Schiele, Oskar Kokoschka. È da questi tre nomi, uniti a quelli degli architetti Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich e Josef Hoffmann, che nasce la Secessione Viennese, movimento contemporaneo e analogo ad altre realtà europee che, pur assumendo denominazioni di volta in volta diverse, art déco, art nouveau, liberty o modernismo, hanno in comune la concezione del recupero del classico e della tradizione tramite l’utilizzo di materiali nuovi e mai adoperati in tali circostanze.
Tutta l’opera di Gustav Klimt, dalle tele più famose ai quadri meno conosciuti, dal celebre Bacio (Der Kuss) del 1908 della galleria Belvedere, agli enormi pannelli (le dimensioni andavano oltre i 400 cm di altezza per 300 di larghezza) concepiti per l’università di Vienna, è un esempio fulgido di quel movimento che condizionò e incanalò tutta l’Europa verso una nuova concezione di bellezza e di armonia. A più di 100 anni da quel giorno, e a 150 anni esatti dalla nascita del maestro di Baumgarten, nessun critico oserebbe porsi più la domanda che fu costretto a porsi e a porre alla platea Franz Wickhoff. Una risposta, ironica e pungente la diede negli anni ‘70, il critico e storico dell’arte Sergio Bettini che immaginò il classico ragiunat o cummenda milanese il quale, dopo essere inorridito alla visione dell’arte contemporanea e aver deriso i quadri di qualche mostra alla quale “non si può mancare”, inesorabilmente, anni dopo, si ritrovò ad avere appesa al muro dell’ufficio una di quelle stesse opere divenuta vanto del proprio “gusto” e della propria “attenzione alla cultura”.
Così Klimt è diventato una delle massime icone e degli artisti più quotati del ‘900, riconoscibile in tutto il mondo nei suoi tratti, nei suoi inserti quasi mosaicati, nei suoi ori che il pittore recuperò dai suoi ricordi infantili (il padre era un maestro orafo) e dalle sue esperienze di viaggio nella città di Ravenna. Il viaggio fu un elemento essenziale della vita di Gustav, come egregiamente e con perizia ci racconta l’esposizione e la ricostruzione biografica tuttora in essere al Leopold Museum di Vienna (Klimt: Up Close and Personal dal 24 febbraio al 27 agosto 2012) che ripercorre la vita dell’artista con l’ausilio di installazioni, filmati, fotografie e soprattutto lettere e cartoline che il pittore spedì quasi giornalmente, ovunque si trovasse, alla sua amata Emilie Flöge.
Quella curiosità, quel girovagare d’artista, portò Klimt anche a Venezia dove, nel 1910, partecipò con successo alla IX Biennale d’Arte e dove, anni prima, aveva ammirato estasiato i mosaici della Basilica di San Marco senza la visione dei quali, forse, non avrebbe mai dato vita al suo “periodo d’oro”. A distanza di più di un secolo la Serenissima lo richiama nuovamente ad esporre nelle sale appositamente riconcepite e restaurate del Museo Correr nell’ala Napoleonica dell’eterna e ineguagliabile cornice di Piazza San Marco. La mostra, Gustav Klimt: nel segno di Hoffmann e della Secessione, attestatasi come uno degli eventi più visitati in Italia degli ultimi mesi e in prossima chiusura il 7 luglio, è una brillante co-produzione dei Musei Civici Veneziani e del Museo Belvedere di Vienna in occasione del 150esimo dalla nascita del pittore. Il nuovo direttore della Fondazione Musei Civici Gabriella Belli dichiara: «Un grande ritorno per un grande inizio della nostra Fondazione, che proprio nel progetto dedicato a Klimt vede non solo realizzarsi l’opportunità di una importante collaborazione internazionale, ma anche restituzione “culturale” di una presenza, come quella di Klimt, che fu determinante per lo sviluppo delle arti in Italia nei primi decenni del secolo scorso».
La curatela è stata affidata ad Alfreid Weidinger che ha saputo ricostruire con perizia le atmosfere primo novecentesche viennesi, regalando ai fruitori uno splendido percorso conoscitivo e culturale sia tramite le pitture (favoloso il poter vedere riunite ed accostate le due Giuditta, la prima del 1901 e la seconda, altrimenti detta Salomè del 1909) sia tramite ricostruzioni di architetture, gioielli, mobili, documenti e progetti storici (da non perdere la ricostruzione, occupante un’intera sala del fregio di Beethoven). La Secessione Viennese è la ricerca verso l’opera d’arte totale, Gesamtkunstwerk, e trova casa nel secondo decennio del XXI secolo a Venezia, nell’intento, perfettamente riuscito, di raccontarci un luogo d’Europa che vide il fervore della modernità sperimentarsi, crescere e imporsi nei più importanti ambiti della vita: dall’arte alla musica, dalla psicologia alla letteratura e alla filosofia.