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A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca Tarenzi

Creato il 30 giugno 2010 da Okamis

A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziA volte, girando sui siti personali di alcuni scrittori (non solo italiani), ho come l’impressione che tra le tante ragioni per cui questi continuano a sfornare opere c’è anche il desiderio di rimanere sotto i riflettori. Riflettori piccoli, è vero, per nulla paragonabili a quelli delle arti più “pop”, ma forse proprio per questo ancor più pericolosi, visto che rischiano di alimentare una dimensione da elite o, peggio ancora, da genio incompreso. Ora mi si dirà che un simile discorso è applicabile non solo agli artisti, ma anche (soprattutto?) a quei lettori che la rete la sfruttano non solo per cercare informazioni, ma anche per fare informazione. Nulla in contrario al riguardo, anzi.

Proprio per tali ragioni, è sempre più raro trovare persone per nulla sedotte dall’idea di crearsi un proprio angolo di piazza virtuale da cui improvvisare qualche bel comizio.

Ma esistono. E una di queste è Luca Tarenzi.

In effetti, se si cerca in giro per Internet, si troveranno pochissimi suoi interventi diretti. Al massimo qualche intervista o poco più. Anche per questa ragione ero curioso di fare quattro chiacchiere con lui, e non solo per l’aver molto apprezzato il suo ultimo romanzo, Il sentiero di legno e sangue.

Così, circa tre settimane fa comincio a cercarlo (dopotutto mi hanno accusato di essere uno stalker, quindi ho una reputazione da difendere, eccheccazzo!). Parto ovviamente dalla rubrica del telefono, ma niente: non compare. Scrivo allora un’e-mail all’Asengard e dopo una manciata di minuti ricevo risposta da tale Edoardo (suppongo lo stesso Edo di cui parla Luca durante l’intervista), il quale fa gentilmente da ponte. Intanto provo a guardare la scheda dell’autore sul retro del libro (non sia mai che sia presente l’indirizzo tanto agognato) e leggendola i quattro neuroni ancora funzionanti nel mio cervello hanno un’illuminazione: moglie veterinaria di nome Erica, casa piena di animali… Non sarà mica che in verità Luca Tarenzi è il mio vicino di casa e non me ne sono mai accorto? E invece è proprio così.

Due i successivi pensieri: da una parte l’esultazione per il risparmio in termini di benzina (e chiunque ricopra il ruolo di umile collaboratore per una qualsivoglia rivista sa bene come questo è un dettaglio per nulla irrilevante); dall’altra la presa di coscienza che ciò annulla di fatto qualsiasi mia futura possibilità di essere pubblicato (brutta statistica, brutta!).

Cazzate a parte, pochi giorni più tardi mi ritrovo con Luca a chiacchierare in riva al lago, in compagnia di un buon gelato e di qualche piccione curioso (che bella immagine Yaoi; mancano solo le bolle di sapone di strazzulliana memoria ^_^). Quanto segue è quindi la cronaca della nostra chiacchierata, durante la quale si è parlato di New Weird e Steampunk, di editoria e giochi di ruolo, di “rotellosità” e provincialismo, di anarchia artistica e politica… Insomma, non ci siamo fatti mancare proprio niente.

Lo so, lo so, questo articolo è terribilmente lungo, ma fidatevi: ne vale la pena. Anche perché, come scrivevo all’inizio, simili occasioni con Luca sono rare. Quindi leggete, anche lentamente; e poi riflettete, dite la vostra, obbiettate, incazzatevi. In qualsiasi caso, buona lettura.

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Partiamo dal tuo ultimo libro: perché Pinocchio?A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca Tarenzi

Mi viene da citare Dimitri quando ha detto “io ho letto Alice da adulto perché da bambino mi terrorizzava, e quando l’ho letto ho pensato: ma questo romanzo è una roba terrificante”. Per me è stato simile. Ho letto Pinocchio circa un paio di anni fa, e ci sono rimasto come preso da una martellata, perché non c’entra un cazzo con l’immaginario comune. La versione che il pubblico che non ha letto la fiaba ha di Pinocchio è incredibilmente distorta. È come quando si chiede a una persona qualsiasi come faceva il dottor Frankenstein ad animare la sua creatura; e tutti fanno un gran sorriso e rispondono “eh eh, con il fulmine”. E invece no! Nel film della Hammer con il fulmine, ma nel libro il dottore non dice come fa, e ne tace volutamente perché non vuole che il lettore del suo diario scopra come ha fatto, altrimenti qualcuno potrebbe imitarlo. Ecco, Pinocchio mi ha ricordato Frankenstein: mitologie errate vecchie di decenni che si sono sostituite al dato originario. Perché in verità anche Pinocchio è una storiella terrificante, piena di scene di violenza, di notti apocalittiche fatte di pioggia e lampi; con la figura della Fata Turchina, che noi percepiamo come una sorta di mamma quando invece viene rappresentata come poco più di una bambina, che chiede a Pinocchio di essere la sua sorellina – e questo è un dato molto importante secondo me, perché la pone su un piano differente – e che è descritta come uno spirito dell’oltretomba: parla quasi sempre di morti, appare in congiunzione con loro ed è presentata come una figura diafana (i suoi capelli sono turchini perché sembrano quelli di un cadavere). Quando ho letto tutto ciò, al di là della morale molto tipica della sua epoca e contro cui bercia Dimitri nell’introduzione al Sentiero, mi sono trovato davanti a una fiaba nera, terrificante, e mi sono detto: ma questa è una storia New Weird!

Poi capita che l’anno scorso, a Torino, Edo di Asengard mi dice: “Mi piacerebbe iniziare questa collana. Non è che tu…?” “Sì. C’è tempo?” “C’è tempo.” Così mi sono fatto tutta l’estate scorsa a fare il pieno di New Weird, più di quanto avessi fatto in passato, e per un colpo di fortuna – ma chiamiamolo pure con il suo nome: culo – mi capita in mano The Alchemy of Stone di Ekaterina Sedia, un libro che mi lascia senza parole. Vedi, il problema del New Weird e dello Steampunk – del New Weird in generale e dello Steampunk in particolare – è che sono generi estetici, e l’estetica si mangia tutto: storia, personaggi… È per questo che, tutto sommato, non mi piacciono così tanto. Mi piacciono come concept, ma le realizzazioni pratiche anche quando sono dei begli oggetti estetici rimangono solo dei begli oggetti estetici. Quello che invece mi ha fulminato di The Alchemy of Stone è che è una storia Steampunk – spiccatamente Steampunk (la protagonista è un automa!) –, ma è fottutamente commuovente. Quando ho letto questo libro mi è tornata alla mente la lettura che avevo fatto di Pinocchio, le due cose hanno colliso e mi sono detto: devo scrivere il Pinocchio New Weird. Da lì me lo sono riletto per l’ennesima volta, cercando se qualcuno ne aveva già parlato come una fiaba oscura, e scopro che un testo c’è: Pinocchio: un libro parallelo, di Giorgio Manganelli, dove lui interpreta la favola come una storia iniziatica. Da tutto ciò e da mesi e mesi di rimuginamento e riletture è uscito fuori Il sentiero. Che poi è stato scritto molto in fretta, appena sei settimane, anche se alle spalle avevo sei mesi di ragionamento.

Prima hai ricordato come la visione tipica di Pinocchio è completamente diversa rispetto a quella reale, accennando in particolare al rapporto “paritario” tra la Fata Turchina e Pinocchio. È da qua che è nata l’idea di trasformarla nella compagna del protagonista del tuo libro?

Esattamente, anche se si tratta di una compagna metaforica visto che i due non arrivano ad avere alcun contatto. Apro una parentesi: è in avanzata fase di studio un secondo libro che non è proprio il seguito di questo, ma una storia indipendente: la storia della “madrina”. Questo libro si svolgerà dopo gli eventi del Sentiero, e quindi avrà per protagonisti “loro” che la vanno a cercare, ma sarà lei a raccontare tutto ciò. E questa volta l’opera di riferimento sarà La bella addormentata nel bosco.

A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziSarebbe la prima volta che lavori su di un seguito.

Vero, anche se presto ci sarà un’eccezione per Le due lune. Pur essendo un libro autoconclusivo, ha lasciato alcuni buchi aperti, e questo perché era una storia troppo grossa. Per cui ho deciso volontariamente di dividerlo in due. Ma non sarà un seguito o il secondo volume di una saga: semplicemente un secondo libro per chiudere la storia e che scriverò questo Autunno per farlo uscire – si spera – l’anno prossimo. Ecco, io francamente preferisco molto di più la formula usata da Dimitri: libri che magari presentano collegamenti l’uno con l’altro, ma ognuno autoconclusivo. Le saghe fiume non sono nelle mie corde.

Tornando al tuo “Pinocchio”, la vera figura protettrice del protagonista in verità è il sonnambulo, Pellegrino, piuttosto che la dea (la versione “alternativa” della fata turchina, nd Okamis), e questo nonostante egli sia la controparte di Lucignolo.

Sì, Pellegrino è Lucignolo, ma ho voluto ribaltarlo. Ho voluto creare un Lucignolo che guida verso la luce anziché verso le tenebre. Nel mio libro l’ho chiamato Pellegrino non a caso, ma perché lo stesso Lucignolo è un soprannome. Il vero nome del personaggio nel libro di Collodi è Romeo, chiamato appunto Lucignolo perché alto e sottile come lo stoppino di una candela. Il mio riferimento va invece ai Pellegrini Romei, coloro che andavano in pellegrinaggio a Roma. E siccome il New Weird è ribaltamento, ho trasformato la madrina in una compagna e Lucignolo in guida della luce, per non parlare di Mangiafuoco, da personaggio tutto sommato positivo nella storia originale a mostro. Per tornare un attimo alla figura della dea del caos, devi sapere che io ho una smodata e insana passione per la Società Discordiana, ragion per cui l’ho tratteggiata come Eris, la dea della discordia, così come percepita dai Discordiani, tanto che nel romanzo c’è più di una citazione dei principi della discordia nelle chiacchiere del tarlo. Quando poi scriverò la sua storia mi piacerebbe enfatizzare questo suo aspetto.

A proposito di ribaltamento, una cosa che mi capita spesso di dire è che quando si realizza narrativa occorre porsi dei limiti in equilibrio tra loro. A tal proposito, ho notato come in questo libro siano presenti due forze contrastanti ma, appunto, in perfetto equilibrio. Da una parte, come accenna lo stesso Dimitri nell’introduzione, un Pinocchio che non sa qual è il suo ruolo nell’universo, eppure mosso da una forza fatale (nel senso etimologico del termine) che lo porta a compiere la sua missione, quasi non esista il libero arbitrio; dall’altra però abbiamo un mondo dominato da un caos onirico – Dimitri usa un termine che qui calza a pennello: anarchico – dove ai Dormienti è lasciata pressoché totale libertà, data anche la loro condizione “divina”. Mi chiedevo quindi: quanto è difficile equilibrare due forze tanto antitetiche?

Per un meraviglioso caso fortuito. A volte ci lavori tantissimo sulle cose e poi queste non funzionano, altre volte invece l’intuizione buona fa scoccare la scintilla. Francesco a Torino diceva sul palco che magari tu passi notti intere su un passaggio che ti piace tantissimo e poi vedi il tuo lavoro scomparire in un click perché l’editor giustamente ti fa notare che il tutto non funziona. Quindi sul quanto è difficile, è difficile rispondere. La materia trattata nel mio libro, in verità, offriva il fianco a miti che avevano già raccontato questa storia, grandi figure e grandi archetipi già mossi nella medesima direzione. Quindi io in verità ho copiato, saccheggiato, fatto una sorta di collage. Ti dirò di più. Io sono laureato in storia delle religioni. Un mio amico che studia religioni del mondo classico quando ha letto Il sentiero mi fa: “Tu hai scritto un racconto gnostico”. In quel momento è come se mi avessero dato un’altra martellata, perché la mia tesi di laurea era sullo gnosticismo e non me n’ero minimamente accorto. Eppure… Porca puttana, aveva ragione! (ATTENZIONE! Le righe che seguono contengono spoiler sul finale, quindi consiglio a chi non ha ancora letto il libro di passare direttamente alla domanda successiva, nd Okamis)

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A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziMa secondo te i miti o, più in generale, la narrativa fantastica del passato quanto ancora possono insegnarci, visto anche e considerato che sia tu che Dimitri attingete a piene mani da tale materiale?

(Luca sorride, nd Okamis) Tutto.

E cosa invece noi possiamo aggiungere loro?

Possiamo raccontarli di nuovo come alla loro epoca li avevano raccontati in una forma che era nuova rispetto al passato. Possiamo raccontarli in altre vesti e altre forme. Quando a Torino al Salone Off è saltato fuori l’argomento “realismo” – argomento che su Francesco ha lo stesso effetto di una scarica elettrica – a me era venuto in mente Borges. Mi capita spesso di citare Borges, soprattutto quando lui diceva che le storie del mondo sono soltanto quattro. Ora, se io racconto queste storie nell’ambito del fantastico nella maniera più ampia del termine, è come se avessi un guardaroba lungo chilometri, come se avessi tutte le maschere, tutti gli attori immaginabili. Se invece scelgo la via del realismo, mi ritrovo con un armadio, talvolta addirittura solo un cassetto con quattro stracci. Possono bastare, per carità – c’è gente che ha scritto roba meravigliosa usando quegli stracci –, ma io non ce la faccio. Quindi cosa possiamo fare noi per raccontare le storie del passato, visto che alla fine sono sempre quelle? Possiamo vestirle di nuovo, come il medioevo le ha vestite attingendo all’età classica, come l’età classica le ha vestite attingendo a un’antichità preistorica e via dicendo. Noi oggi abbiamo una fortuna mai avuto prima nella storia del mondo, che è la circolazione immediata e massiccia dell’informazione. Possiamo assimilare un quantitativo d’informazioni in un mese che nessuno del passato poteva assimilare in una vita intera. Il problema di cent’anni fa era reperire conoscenze, il nostro problema è selezionarle.

Questa è però anche una responsabilità in più per l’autore.

Una responsabilità immensa. Come insegna lo zio di Peter Parker, da grandi poteri derivano grandi responsabilità, frase estremamente saggia. Noi abbiamo un potere letterario enorme, mai esistito in passato. Facciamo un esempio: ho scritto un romanzo, ma nessuno vuole pubblicarlo. Ecco allora che faccio un bel Creative Commons, un bel PDF e sparo il tutto su Internet. Questo libro potrebbe benissimo essere letto da migliaia di persone, anche solo qui in Italia. Se poi parliamo del mondo anglosassone possiamo moltiplicare tale numero per cento se non mille. E chi ce l’aveva prima una tale potenzialità nel diffondere le proprie storie? Si tratta di una diffusione anarchica, perché Internet è uno strumento anarchico. Come si può anche solo pensare di controllarlo? Non ce la fai, anche se in Italia, che è un paese retrogrado, ci si tenta. Senza successo però, perché è un po’ come cercare di controllare le maree. La nostra è un’epoca di enorme anarchia incipiente, e questo fa più paura di qualsiasi altra cosa, da cui il tentativo di arginarla con mezzi inadeguati. Perché come dice la dea del caos nel libro: io sono cambiamento, e contro questo non si può combattere. Quindi, se tu mi parli di responsabilità, io ti rispondo di sì. Una responsabilità enorme: la responsabilità di essere i nuovi araldi del caos, nel bene e nel male. Possiamo cavalcare quest’onda o possiamo farci sommergere, ma succederà inevitabilmente.

A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziSecondo te chi ha più paura di questa spinta anarchica? Molto spesso infatti, leggendo narrativa fantastica e soprattutto commenti alla medesima, ho l’impressione che ad averne paura siano gli stessi lettori, o quanto meno un certo tipo di lettori (a cui aggiungo anche certi editori). A farla da padrone negli ultimi anni io vedo un’estetica sempre uguale a se stessa e che propone sempre le stesse storie, se non addirittura la stessa storia. E così il genere che più di ogni altro dovrebbe essere vitale e, appunto, anarchico si è trasformato nell’esatto opposto: un genere rassicurante e manieristico. Ritorno quindi alla domanda: chi ha più paura della vera narrativa fantastica?

Ti do due risposte, una generale e una particolare. La risposta generale è che coloro che hanno paura del fantastico e della sua anarchia sono coloro che non sanno adattarsi, coloro che hanno paura del cambiamento. E non ci si sa adattare per un milione di ragioni: perché non si è stati educati a ciò, perché non si ha l’indole giusta, perché sottomessi a una logica d’imitazione… Nel mondo naturale il cambiamento ha un nome ben preciso che è evoluzione, ed è uno strumento essenziale perché l’alternativa è la morte, punto.

Riguardo editori e lettori…

E ci aggiungiamo anche gli scrittori?

Certo. Anche perché da autore pubblicato non vorrei fare il “crociato”. Partiamo però da una banalità: l’editoria non è un’associazione di beneficenza. È un’industria a scopo di lucro dove l’editore vuole guadagnare non poco, ma il più possibile. Quindi s’innesca un procedimento in stile uroboro, il serpente che si morde la coda, o, meglio ancora, di profezia che si autoavvera. Poniamo che io voglio vendere tante copie del mio libro. Quindi diamo al pubblico quello che vuole. Ma cosa vuole il pubblico? Beh, cos’ha comprato l’ultima volta? Ha comprato tante copie di “questo”. Quindi io questo gli do. Vedi, come m’insegna mia moglie, che fa la veterinaria, se tu a un gatto da piccolo dai sempre la stessa pappa, lui crescendo non mangerà più nient’altro. Se tu dai al pubblico sempre la stessa cosa, pensando che è quello che il pubblico vuole, alla fine il pubblico non vorrà più avere altro, perché non ha alternative. Ma è la sua mente a non averne, e questa è una prigione per la sua psiche. Il meccanismo alla fine è: l’editore propone sempre lo stesso perché pensa di soddisfare la richiesta del cliente, il lettore legge sempre lo stesso perché in verità non è educato alla “diversità”, e lo scrittore scrive sempre lo stesso perché vuole essere pubblicato, perché a sua volta è quello che chiedono le case editrici.

A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziUn meccanismo malato.

Certamente. È un circolo vizioso terribile, un uroboro che divora se stesso. Ed è un lavoro finto, perché appena si esce da questo meccanismo si scoprono cose pazzesche. Un anno fa Francesco insisteva su questa cosa con me e io storcevo la bocca non molto convinto e gli dicevo: “Sei sicuro, Francesco? Tu hai una fiducia nel pubblico che io personalmente non ho”. E lui mi rispondeva: “Non è vero. Guarda che può succedere”. Faccio l’esempio di quello che abbiamo davanti al naso non perché sono io, ma perché è un esempio che conosciamo tutti e due. Appena tu offri al pubblico un’alternativa, il pubblico ci si lancia. Il sentiero sta vendendo tantissimo e di ciò sono rimasto senza parole. All’inizio pensavo che questo libro sarebbe stato considerato un trascurabile divertissement letterario, una bizzarria, soprattutto in Italia dove non esiste una scena New Weird. E invece lo stanno divorando, nel suo piccolo ovviamente. E mi ritrovo così a dire che Francesco aveva ragione. Se tu offri al pubblico un’alternativa, poi il pubblico te la prende. Ma non è solo una responsabilità degli editori. Troppo facile dire che è sempre colpa loro, delle loro idee su come fare soldi, del loro marketing o del pensiero secondo cui se un libro non viene presentato su Repubblica allora non venderà. È anche una responsabilità nostra.

Che poi il pubblico del Fantasy non è quel pubblico che cerca informazioni letterarie su Repubblica…

Appunto! Ma è un concetto difficile da far capire. Ma la responsabilità, come dicevamo prima, è anche di noi scrittori. Uno scrittore quanti libri scrive all’anno? Uno, se va bene. Due proprio a esagerare e se non sono grandissimi. Ma quanti ne leggiamo? Un lettore forte in media legge un libro alla settimana, quindi diciamo sui cinquanta in un anno. Quindi siamo lettori cinquanta volte di più di quanto siamo scrittori. Ed è qui la responsabilità del lettore, nel leggere certi tipi di cose. È come un grosso circolo vizioso a cui partecipiamo colpevolmente tutti, ma dove possiamo anche decidere di fermarci.

Tornando al tuo libro, c’è un passaggio che ha mi obbligato a fermarmi e andare a ricontrollare il nome dell’autore. È all’inizio del capitolo 8, dopo che Pinocchio si è trovato di fronte al primo Sognatore e chiede (il sottolineato è mio; il primo personaggio che parla è Pinocchio, il secondo il Tarlo, nd Okamis):

«Dunque è così che è fatto un Sognatore

«Quello è solo l’aspetto che ha voluto mostrarti: il suo vero corpo, il suo corpo umano, giace addormentato da qualche parte nel palazzo, ma la sua mente non è prigioniera della carne

Ora, senza sminuire il tuo lavoro, tutti questi termini (sogno, aspetto, carne) sembrano presi di peso da Dimitri. E da lì, rimuginandoci un po’ su, ho pensato come un discorso simile fosse applicabile anche alle tre categorie di personaggi da te descritte. Abbiamo infatti i Sognatori (Sogno), i Desti (Carne) e in mezzo ci sono i Sonnambuli, anche se il loro caso non è assolutamente assimilabile all’Incanto di Dimitri. E qui arriva la domanda: quanto secondo te ti ha dato Dimitri e quanto invece pensi di aver dato tu a Dimitri.

Bella domanda… Premessa: non pensavo coscientemente a Dimitri quando ho scritto quel passaggio. Però potrebbe essere inconscio visto che il nostro cervello lavora al 90 per cento senza che ce ne accorgiamo. Io e Francesco abbiamo due formazioni molto simili: di curriculum scolastico (io arrivo da storia delle religioni e lui da antropologia), di letture (ogni volta che parliamo scopriamo di aver letto sempre le stesse cose, a volte addirittura in parallelo, tanto che quando riesco a consigliargli un libro mi metto a esultare)… Quindi, probabilmente, io e lui siamo cresciuti con immaginari molto simili. Non lo dico per vantarmi, anche se è una cosa che mi lusinga immensamente, ma ci sento sempre più spesso paragonati; anche se, come dico sempre, è un po’ come paragonare un’aquila a una quaglia: uccelli sono tutti e due, ma Dimitri è un’aquila e io una quaglia. Quindi, per rispondere alla tua domanda, Francesco mi ha di sicuro dato tanto. Quando ho letto Pan la prima volta ho pensato: porca puttana, Luca, questo è il libro che tu avresti voluto scrivere.

A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziChe è il più bel complimento che si possa fare a un libro.

Vero, però non l’ho fatto. Perché? Uno: perché non ne avevo le capacità. Le conoscenze sì. Il genere di cultura che Francesco ha usato in Pan ce l’ho anch’io. Quando vedevo il suo personaggio dell’antropologo, Giovanni, che citava di Martino ed Eliade, dentro di me pensavo “cazzo, ma pure io ho letto di Martino!”. Quindi le conoscenze, modestamente, le avevo; ma, ripeto, non avrei mai potuto scrivere un libro così, perché appunto non ne avevo la capacità e, due, il coraggio. Perché Pan è un libro mostruosamente coraggioso, soprattutto considerando il momento della narrativa fantastica italiana in cui è uscito. Una delle cose che dico spesso a Francesco è che lui ha fegato letterario, cosa che io forse sto cercando di farmi venire adesso. Ti dico: io sono stato come illuminato da Pan, così come in tanti. Era una bomba, una granata, una testata nucleare.

Quanto io ho dato a Francesco… Non ne ho la benché minima idea. Nel mio piccolo mi sono limitato a consigliargli un paio di web-comic e qualche romanzo. Il giorno in cui si vedrà qualcosa di mio nelle sue storie offrirò la cena a tutti. Comunque nel libro che sto scrivendo adesso, dopo la citazione inconscia che tu hai trovato, ci sarà una bella citazione conscia di Francesco. Questi sono letterariamente i nostri rapporti, per come li vedo io. Io da lui posso ancora prendere tanto, ma che lui prenda da me… In Italia siamo tutti “sotto” di lui.

Ma Dimitri può ancora essere considerato un autore “italiano”?

Il punto è che allo stato attuale della letteratura fantastica italiana dire a qualcuno che il suo libro sembra scritto da uno straniero, e in particolare da un anglosassone, è fargli un complimento. Alla fine, di quale letteratura fantastica si è nutrito Francesco? Di quella italiana? Certo che no. Siamo quel che mangiamo, ed è quello che ho cercato di fare pure io con Le due lune e, ancora di più, con il libro che sto scrivendo ora: presentare la versione fantastica delle proprie città, ma con quell’occhio di chi lo fa a casa sua. Ora come ora, solo gli anglosassoni e pochi altri ci riescono, piaccia o non piaccia. Ma se vogliamo dar vita allo “scrittore del futuro” occorre acquisire quell’occhio lì, altrimenti la nostra narrativa si trasformerà in semplice provincialismo, e questo non va bene. Pensa a un autore anglosassone qualsiasi che decide di ambientare il suo romanzo nel paesino più sfigato del Sussex. Parleresti di provincialismo? No. E infatti è rarissimo sentir accusare autori anglosassoni di provincialismo. Anzi, sembra quasi che loro non abbiano questa categoria, mentre noi non facciamo altro che fare questo con i nostri libri. Magari quella scelta da Francesco, consciamente o inconsciamente, è una via per uscire da tale inquadratura. Io ci credo abbastanza da essermi orientato proprio in quella direzione.

Tornando al discorso precedente, dal fantastico internazionale cosa pensi di aver “preso in prestito”?

Dal fantastico in generale o specificatamente dal New Weird?

A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziAnche dal fantastico in generale.

Tu lo sai che a fare una domanda del genere rischi che non mi fermi più, vero? Scherzi a parte, così come per molti altri, sono cresciuto con l’Heroic Fantasy. Ma ormai il “Fantasy con la cartina” ha fatto la sua epoca per “quelli come noi”. Non che siano tutti brutti libri – tu mi dici ad esempio che L’acchiapparatti è bello, eppure ha la cartina (per evitare fraintedimenti, al momento dell’intervista Luca non aveva ancora letto il libro di Barbi, nd Okamis) –, ma ripeto: hanno fatto il loro tempo. Io, ancor più del New Weird, dello Steampunk e delle cose più bizzarre, amo lo Urban Fantasy, quello classico, ambientato proprio nelle nostre città. In particolare ho un amore viscerale per Jim Butcher, che però in Italia non è pubblicato. Lui negli Stati Uniti è molto famoso. È un autore fiume, di quelli che pubblicano un libro all’anno (mi pare sia arrivato al dodicesimo volume della sua serie). Ora, non troverai nulla di nuovo in un libro di Butcher. Il suo protagonista è un mago, vive a Chicago, ha a che fare con vampiri, lupi mannari, creature fatate… Insomma, Urban Fantasy da manuale, classicissimo. Ma lo scrive così bene, è così ironico, così divertente, così emozionante, con trame così ferree a cui non toglieresti una fottuta virgola, che se tu cominci a leggerlo diventa come una droga. Una volta Francesco mi ha detto: “Butcher è originale come la chiappa sinistra”. Però averne! Si potrebbero spazzare via migliaia di autori e lasciare solo Butcher. Questo è lo Urban Fantasy che mi piace di più e che ho cercato di fare, pur con tutte le limitazioni che mi sono state date, con Le due lune, e che ora sto cercando di fare con il nuovo romanzo per Salani, che è molto più ironico, molto più veloce. Se poi sarà anche molto più bello non lo so; quello lo deciderà il pubblico. Io però mi sto divertendo a scriverlo.

Riguardo New Weird e Steampunk, il problema è quello che ti dicevo prima: l’estetica. Pur essendomi trovato davanti a esempi estetici belli, se non bellissimi, io ne patisco l’eccesso. Un mio amico, grande creatore di neologismi, ha creato una definizione bellissima. Lui diceva: ma cos’è lo Steampunk? Lo Steampunk è la rotellosità. Ed è vero, ma dopo ch un romanzo di ottocento pagine ti ha fatto vedere tutta la rotellosità, tu alla fine quella ti ricordi, ma ti dimentichi i personaggi, ti dimentichi la storia e soprattutto ti dimentichi le emozioni. E questo pur con delle notevoli eccezioni, come appunto Ekaterina Sedia. Recentemente ho letto The affinity bridge di Gerge Mann, un bello Steampunk pulito, fatto di superfici d’ottone e di rotelle in numero giusto. Non c’è una sovrabbondanza tecnologica nel suo romanzo, sebbene siano presenti automi e macchine volanti; e questo mette in evidenza la trama da giallo, senza invece nasconderla come in altri libri. Ecco, questo è lo Steampunk che mi piace.

Anche perché spesso – e questo è un discorso che vale soprattutto ora che questo genere sta diventando di moda – c’è il rischio che dietro la maschera da ambientazione un po’ fuori dal comune si nasconda sempre la solita storia già letta centinaia di volte, vedi l’esempio di Steamed di Katie MacAlister.

Certo, così come recentemente, non so per quale colpo di testa, a Einaudi è venuto in mente di pubblicare Leviathan. Io al solo leggere il riassunto mi sono detto: ma che minchia di storia è? Durante una cena fatta con Francesco all’inizio di quest’anno, lui diceva che il New Weird alla fin fine è una scatola dove puoi ficcare qualsiasi cosa; ma un contenitore pensato per contenere qualunque cosa alla fine è un contenitore pensato per non contenere niente. Poi, figurati, lui odia ancor più di me le etichette. Il problema però è proprio questo: quando tu non sai tanto bene come definire una cosa, senti il bisogno di darle un nome. Il New Weird, così come lo Steampunk, è un genere ad altissimo rischio di autoreferenzialità. Ma se noi prendiamo una definizione come può essere quella (orrenda) data da VanderMeer, arriviamo a dire che il Mieville della trilogia del Bas Lag è New Weird perché non parla del nostro mondo, mentre il Mieville di Unlundun piuttosto che di Kraken, che sono ambientati a Londra, invece è Urban Fantasy con influenze weird. Ma che cazzo stiamo dicendo? (ride, nd Okamis)

Quando si ha a che fare con questi generi molto estetici bisogna sempre stare molto attenti. Che è poi la ragione per cui non mi piace VanderMeer, tanto che nella versione originaria della postfazione l’avevo scritto, anche un po’ da “cattivo”. Edo poi mi ha consigliato di togliere quella frase, dove scrivevo che VanderMeer è un creatore di grandi immagini, ma un pessimo scrittore, un pessimo costruttore di storie e un fottuto plagiario (e io becco da dove copia sebbene lui non lo dica). Ecco, VanderMeer secondo me è il New Weird come non dovrebbe essere: una meravigliosa costruzione estetica al servizio di una meravigliosa costruzione estetica; e a volte nemmeno quella, vedi Veniss Underground.

A volte il mondo è piccolo: intervista a Luca TarenziPrendi invece Swanwick. Tu leggi The iron dragon’s daughter e poi dici: ma io non vado a fare lo scrittore, vado a fare il pizzaiolo. Perché questo è uno scrittore. Uno come Swanwick ti spazza via. I dettagli (mai letto un libro con così tanti dettagli meravigliosi), i personaggi montanti così bene e in così poche righe, la storia incredibilmente coraggiosa, che prima sembra femminista, poi maschilista, poi… Ecco, Swanwick è l’opposto di VanderMeer, la dimostrazione che tu puoi usare qualcosa che forse non è proprio New Weird ma comunque molto Weird per dar vita a personaggi grandiosi e a una storia pazzesca.

Invece tra gli autori che hai tradotto o di cui ti sei occupato dell’editing, c’è mai stato qualcuno da cui senti di aver imparato qualcosa?

Non è bello da dire, ma non ho mai editato un libro italiano da cui mi sono sentito d’imparare qualcosa. Al massimo qualche bel libro, ma pur sempre una minoranza, e non solo nel fantastico. Ecco, io editerei volentieri un libro di Dimitri. Lì sì che avrei qualcosa da imparare.

Dagli stranieri invece sì. Due anni fa, per Salani, ho tradotto La valle degli eroi di Jonathan Stroud, che in Italia ho notato essere piaciuto poco, forse perché da noi lui è noto solo per il personaggio di Bartimeus, mentre in madrepatria c’è tutto uno Stroud che noi non conosciamo e che è lo Stroud autore per bambini, a cui La valle degli eroi è senz’altro più vicino. Probabilmente molti acquistando questo libro si aspettavano un clima alla Bartimeus. Un peccato, anche perché a me e alle ragazze di Mondi Fantastici il romanzo era piaciuto esageratamente, perché è un libro scritto bene, accattivante, pulito nella scrittura… bello.

Un’ultima domanda, volutamente banale e generica per lasciarti il più ampio margine d’azione: visto lo stato del fantastico in Italia, cosa pensi possano e debbano fare gli autori per “migliorare la scena”?

Ma guarda, in verità la risposta è di sole due parole: scrivere bene. Il che vuol dire leggere tanto e con attenzione, scrivere, ragionare, informarsi, farsi criticare (cosa che per gli autori italiani è una delle più grandi fatiche); insomma, fare tutto il necessario per scrivere bene. E per scrivere bene occorre anche capire cos’è la bella scrittura; e questo non te lo dice il giudizio del pubblico, altrimenti autori che vendono tantissimo dovrebbero essere Artisti con la A maiuscola, quando sappiamo bene che così non è. Nel mio libro Pellegrino cita una frase che lui dice di aver sentito a sua volta dal suo maestro, e che recita “fai bene quel che stai facendo in questo momento”. Stai facendo anche solo un aeroplanino di carta? Fallo bene. Se invece pensi di scrivere per diventare famoso o fare soldi, allora non hai capito proprio nulla.


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