A.A.A. mafioso cercasi disperatamente. Inviare minacce generiche o avvertimenti al seguente indirizzo:
Ordine dei giornalisti, via Parigi 11, 00185 Roma
Ovviamente questa è una provocazione. Ma è peggio questa provocazione o il fatto che una giornalista morta (l’ultima di una purtroppo lunga lista) non faccia notizia? In Italia, nè Ordine dei Giornalisti nè l’Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti, hanno scritto una riga su quanto successo in Siria e su quanto è stato detto dal Ministro degli Esteri siriano in seguito alla morte di Mika Yamamoto. Il sottosegretario agli esteri siriano infatti, Faysal al Miqdad, ha affermato: “Esprimiamo il nostro cordoglio per la morte di qualsiasi essere umano ma non è responsabile addossare la colpa al governo siriano se si è entrati nel Paese in modo illegale. Porgiamo le nostre condoglianze al governo giapponese e alla famiglia della giornalista, ma quando un giornalista si comporta in modo irresponsabile – ha aggiunto Miqdad – egli deve mettere in conto di trovarsi in situazioni difficili”.
Quindi la colpa, se la giornalista è stata uccisa dall’esercito siriano che non rispetta le convenzioni internazionali (quella di Ginevra, a cui ha aderito), è solo sua. La copa di Mika è stata quella di essere entrata illegalmente in territorio siriano, visto che il governo di Damasco rilascia pochissime visa e quando anche si riesca ad averla, si è impossibilitati a muoversi da Damasco (se non in tour) e di seguire liberamente il conflitto in corso. Tanto più di seguire la ribellione in atto nel paese.
Le Convenzioni di Ginevra assimilano i giornalisti ai civili e ne sanciscono la protezione ( art. 79 del Protocollo 1 della Convenzione di Ginevra). I giornalisti sono anche qualcos’altro rispetto ai civili: per divulgare in modo indipendente le informazioni e limitare l’impunità dei crimini con la loro presenza mediatica sono spesso costretti ad assumere rischi considerevoli.
Allora rinfreschiamoci la memoria con la Convenzione di Ginevra
Art. 79 Misure di protezione dei giornalisti
1. I giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone di conflitto armato saranno considerati come persone civili ai sensi dell’articolo 50 paragrafo 1.
2. Essi saranno protetti in quanto tali conformemente alle Convenzioni e al presente Protocollo, a condizione che si astengano da qualsiasi azione ledente il loro statuto di persone civili, e senza pregiudizio del diritto dei corrispondenti di guerra accreditati presso le forze armate, di beneficiare dello statuto previsto dall’articolo 4 A. 4) della III Convenzione.
3. Essi potranno ottenere una carta d’identità conforme al modello unito all’Allegato II del presente Protocollo. Tale carta, che sarà rilasciata dal governo dello Stato di cui sono cittadini o sul cui territorio risiedono, o nel quale si trova l’agenzia o l’organo di stampa che li impiega, attesterà la qualifica di giornalista del suo titolare.
Tralasciamo il pietoso fatto che l’agenzia o l’organo di stampa non ti rilascia alcunchè perchè non vuole avere ripercussioni giudiziare quando e se succede qualcosa di grave, è ovvio, come è scritto nella Convenzione, che il giornalista è equiparato ai civili anche se si trova con una delle due parti in conflitto e deve vedere riconosciuti tutti i suoi diritti compreso quelli dei prigionieri di guerra.
Questo vale anche in un contesto di guerra civile.
Ora, tornando sul caso italiano, chissà perchè, complice il caldo di agosto e la settimana enigmistica sotto l’ombrellone, non una voce si è alzata dagli organi di categoria. Eppure in Siria ci vanno divrsi giornalisti italiani, la maggior parte freelance. Fino a quando ci si sente offesi dalle parole di Beppe Grillo sulla casta, allora tutto va bene, si fanno grandi articoli, grandi levate di scudi, grandi denunce. Ma se c’è da difendere il lavoro vero di giornalisti che si occupano, a rischio della loro pelle, di raccontare al mondo (e ai media italiani che non sono presenti) quello che sta avvenendo in un paese in guerra, allora tutto finisce sotto silenzio.
C’è un motivo? Uno credo ci sia: è solo dilettantismo, ignoranza e visioni molto limitate della professione e del ruolo dei giornalisti. Fino a quando si parla dei potenti nostrani si è qualcuno, non importa se si lecca il culo a qualche altra corrente politica. La politica è politica. Quando poi il minacciato è un pezzo da 90 allora si muove tutta la macchina. Se invece non è uno della casta che conta, allora la cosa passa in sordina.
Ultimamente c’è stato però un ribaltamento della situazione, dovuto più alla pressione della rete e di gruppi autonomi che da vere e proprie logiche a lungo termine e di ampio respiro degli organi di categoria. Si tratta dei giornalisti, interni o precari o freelance, minacciati dalle mafie.
Bene, ma perchè questo non vale per i giornalisti che operano in contesti altrettanto se non più pericolosi?