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La scorsa settimana sono stato alcuni giorni in Spagna, dove ho potuto registrare una situazione molto preoccupante. La parola più ricorrente era “paro“, disoccupazione. Un problema che sentono soprattutto i giovani: tra loro la percentuale dei senza lavoro è ormai intorno al 48%, uno su due. Una percentuale assolutamente inaccettabile, cui pone rimedio -di fatto- solo il cosiddetto “lavoro sommerso”. E c’è un altro fatto: parlando con chi si occupa di mercato del lavoro, mi è stato detto che -paradossalmente- se la passano meglio, nella difficoltà, i professionisti qualificati. A Madrid si continua a investire, pur nelle ristrettezze, in capitale umano qualificato. Questo è fondamentale, per ripartire. Gli spagnoli l’hanno capito.
La situazione insomma è grave, ma ho avuto la netta impressione che la Spagna può uscirne meglio dell’Italia, stando così le cose: innanzitutto, perché attraverso le elezioni anticipate può dare mandato a un Governo di nuova investitura (e presumibilmente forte, se -come anticipano i sondaggi- il Pp avrà la maggioranza assoluta) di fare le riforme necessarie, senza dubbi, incertezze, rinvii o altro ancora (vedi l’Italia degli ultimi mesi). In secondo luogo perché Madrid, dopo aver scommesso quasi interamente per un decennio sulla bolla immobiliare, sta comprendendo che è giunto il momento di ridisegnare la politica industriale (partendo da innovazione e rinnovabili). La situazione è pesante, ma si intravede una direzione. Per quanto dura e irta di ostacoli, la direzione c’è.
Qui no. Mi spiace dirlo, ma qui la direzione è -come sempre- approssimativa. Esempio ne è stata la lettera del Governo all’Unione Europea. E’ vero che -essendo ormai un “protettorato” dell’Europa, con le nostre politiche commissariate (paradossalmente potrebbe non essere poi così male…)- è difficile capire in primis cosa si va a proporre. Poichè ti viene dettato, e devi solo metterlo in bella copia, non è detto che tu lo capisca. A oltre 70 anni suonati i neuroni corrono un po’ meno. Però il dilettantismo con cui è stata proposta la modifica della normativa in materia di lavoro e licenziamenti ha rappresentato il colmo. Anche un bambino sa che -se liberalizzi- devi creare una maggiore rete di protezione sociale, ridisegnare il welfare. La tanto sbandierata flexsecurity, che questo Governo (e i suoi precedenti) non hanno mai veramente saputo -o voluto- introdurre… Altrimenti rischi un boom di disoccupati. Ebbene, come rilevavano giorni fa Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera, “di questo nella lettera all’Ue non vi è cenno“. Come al solito, si prendono le idee buone, apprezzate dall’Europa (come il contratto unico), e le si maneggia con totale incapacità.
Sono totalmente d’accordo con quanto scriveva Irene Tinagli domenica su “La Stampa”: “se pensiamo alla velocità con cui il mondo sta cambiando e la confrontiamo con la lentezza con cui pensano e agiscono i nostri politici, ci accorgiamo che qualcosa non torna. E’ stridente il contrasto tra il mondo reale, fatto di fenomeni nuovi che ci colgono alla sprovvista, di Paesi emergenti che esplodono strappandoci quote di mercato, e il mondo della nostra politica, fatta di signori attempati che periodicamente si siedono attorno a un tavolo, scambiandosi scartoffie in attesa del prossimo meeting“. La Tinagli definisce la classe dirigente italiana come vecchia, stanca e non più in grado di capire ciò che gli passa sopra la testa, né dare risposte a nulla. E si chiede, più che giustamente: “possibile che non esista una chance di ricambio, un’”opzione generazionale” in grado di farci riprendere il passo col mondo?
Sì, esiste. Ma non qui. Il Corriere della Sera sottilmente notava come -per fare un esempio- in Europa gli italiani (presi come singoli) contano molto. Mario Draghi presidente della Bce è forse il caso più emblematico, ma molto apprezzati sono anche i vari Bini-Smaghi, Buti, Cottarelli, Padoan. Sono la punta dell’iceberg di una professionalità tutta made in Italy, che trova tuttora eredi freschi e giovani, quelli che da oltre un decennio partiti alla conquista non solo dell’Europa, ma del mondo.
Ormai la “fuga dei talenti” è un fenomeno nazionale: nelle ultime settimane ho letto più articoli di giornali locali, da sud a nord, dove si denuncia il fenomeno. Da Metropolisweb, che parla di 147mila giovani in fuga dalla Campania (verso altre regioni e l’estero), al Giornale di Vicenza, che fissa in 150mila il numero di giovani italiani emigrati nel 2010. E aggiunge: secondo la Fondazione Corazzin, quasi un giovane laureato su due nel Veneto vede il proprio futuro professionale oltreconfine. Titola il quotidiano: “Attenti, la protesta dei giovani è nei fatti. Vanno all’estero“.
Il Centro Studi di Confindustria aggiunge un dato impressionante: secondo il Global Talent Index 2011-2015, l’Italia è 24esima in classifica (dopo la Grecia, 23esima), per capacità di attrazione dei talenti. “Meno giovani vuol dire meno benzina nel motore per il futuro“, ha ben sintetizzato Luca Paolazzi, direttore del Csc. Che ha concluso: “occorre accrescere e liberare le potenzialità racchiuse nei giovani, e aumentare così la loro produttività, occorre importare giovani di talento. L’Italia ha le risorse per raddoppiare il Pil nell’arco di una generazione“.
L’attuale classe dirigente ha fallito. E non vuole farsi da parte. Ne serve una nuova. Subito. Occorre un ricambio immediato, servono idee nuove, per ridisegnare la politica industriale, con lo sguardo rivolto al futuro e non al passato.
Tornando alla la Spagna: non è detto che ce la farà… ma è sotto gli occhi di tutti che -almeno per il momento- è riuscita, con accortezza, a lasciare la palma di “prossimo bersaglio dell’Eurozona” all’Italia.