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Abbiamo un borderline a Palazzo Chigi

Creato il 16 giugno 2015 da Malvino
Abbiamo un borderline a Palazzo Chigi
«Una proiezione riuscita consente al leader paranoide di funzionare nel modo più efficace allinterno dei suoi confini, anche se ciò avviene solo a prezzo di una imponente distorsione percettiva della realtà esterna» Otto F. Kernberg

«La sintesi è questa: abbiamo perso dove ci siamo fermati a mediare. Adesso Renzi deve tornare a fare Renzi». È possibilissimo che non abbia detto proprio così, si sa come sono i retroscenisti, sta di fatto che la frase attribuitagli da Maria Teresa Meli (Corriere della Sera, 16.6.2015) calza come guanto a Matteo Renzi. Parla di sé in terza persona, tanto per cominciare, e su questo non è il caso di soffermarci troppo: si tratta di un sintomo noto anche a chi non abbia pratica con la semeiotica neuropsichiatrica, e che d’altronde possiamo anche evitare di considerare sul piano clinico, per ascriverlo su quello letterario all’habitus dello zotico che si è montato la testa. Poco da dire anche sull’ammissione di una sconfitta che, per il semplice fatto di essere una sconfitta, non può essere sua: è un altro sintomo che non richiede particolari competenze cliniche per essere rilevato come patognomonico del disturbo che affligge il tragicomico ometto, basta non commettere l’errore di interpretarlo come espressione di quell’autostima impermeabile al riconoscimento dei propri errori che nel vanesio cede a un civettuolo «il mio unico difetto è che son troppo buono», ma saper leggere in quell«adesso Renzi deve tornare a fare Renzi» il divorante bisogno di rivalsa che è tipico del narcisista che abbia subito una bruciante ferita. Significativo, per questo, il fatto che la minaccia si sostanzi nel «tornare a fare Renzi», non nel tornare a esserlo: se non vogliamo far tesoro della lezione di Kernberg per individuare in un leader gli indizi di un Sé pesantemente disturbato, possiamo limitarci a dire che il poveraccio è ostaggio del personaggio che si è cucito addosso. Anche qui si opterebbe per uno slittamento dal piano clinico a quello letterario, il che tutto sommato continua a darci una rappresentazione coerente del soggetto, e tuttavia com’è possibile rinunciare allo strumento diagnostico dinanzi a una frase come «so che cè gente che vorrebbe spianarmi e vorrebbe approfittare di queste Amministrative per farlo, ma mi dispiace per loro, vinceremo questa battaglia»? Si tratta di un esemplare caso di ideazione paranoide. Ci è lecito liquidare l’uso di un termine come «spianare» e il repentino passaggio dall’«io» al «noi» come mere pennellate in un ritratto? E dinanzi a una frase come «la minoranza interna [al] Pd deve stare molto cauta, perché a questo giro non possono trascurare il risultato di queste elezioni: loro hanno perso», possiamo limitarci a considerarne le incongruità logiche (quando il partito vince, la vittoria è tutto merito suo; quando il partito perde, la sconfitta è dei suoi oppositori interni), trascurandone il carattere proiettivo? Via, la questione è politica solo incidentalmente, siamo davanti a un caso che possiamo anche limitarci a dire umano, ma che è molto più corretto definire caso clinico. Certo, può provocare sgomento pensare che abbiamo un borderline a Palazzo Chigi, ma limitarci a considerarlo l’interprete di una parte in commedia ci impedisce di mettere in conto gli sviluppi tragici.

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