Dallo Yemen a Catania è un viaggio che Google Maps si rifiuta di calcolare: dice che non è possibile trovare indicazioni stradali sul percorso, giacché noi ci abbiamo provato a calcolare quanti chilometri ha fatto Aber Gazzi, stilista yemenita, per venire a sfilare a Catania al MadeinMedi 2011.
«Mi piaceva l’idea di esporre la mia collezione in Sicilia, e ho colto l’occasione di questo grande evento per farlo», ci racconta durante un’intervista interamente condotta in inglese, ché Aber l’italiano lo capisce, sì, ma per un botta e risposta è meglio evitarlo. Ha ventisei anni e quella per la moda è una passione che viene da molto lontano.
Ciao Aber, ci racconti la tua storia?
«Beh, quando avevo tre anni sono rimasta quasi completamente cieca: questo mi ha causato molti problemi, tra i quali il fatto che non ero per nulla sicura di me e che avevo paura di giocare coi bambini della mia età. Così passavo praticamente tutto il mio tempo da sola, e ho cominciato a osservare la gente, le persone che mi stavano accanto e gli sconosciuti in mezzo alla strada: mi piaceva scoprire la tristezza o la gioia nei loro occhi. Oppure il linguaggio del corpo che usavano per comunicare. Era stupefacente quanto fosse diverso ciò che dicevano da quello che provavano, io rimanevo molto colpita dalla forza con cui riuscivano a non aprire il loro cuore o a non condividere delle emozioni con chi avevano vicino.»
E questo come influisce nel tuo lavoro?
«È ciò da cui traggo ispirazione. Le persone che mi sono attorno, la maniera con cui guardano alla vita, cosa hanno in testa e il linguaggio del loro corpo. Sì, è questo che ispira il mio lavoro.»
Quanto sono importanti le tue origini nel tuo lavoro?
«Ho passato quasi tutta la mia infanzia nello Yemen, e la mia terra si riflette molto nelle mie creazioni. È sempre stato così e così sarà sempre: dai colori alla cultura, dai costumi tradizionali all’architettura.»
Se dico «moda» qual è la prima cosa a cui pensi?
«La moda è il piacere di inventare progetti e forme, di mischiare i colori nella maniera che più mi piace. E non è soltanto questo, è anche qualcosa che ti parla in un modo che soltanto tu puoi capire, ed è quello che amo… Oltre che quello che significa per me.»
Ti piacerebbe continuare a lavorare da sola oppure vorresti collaborare con qualche stilista? E se sì, quali?
«Entrambe le cose, sia da sola sia con qualcun altro. Se avessi la possibilità di lavorare con qualche fashion designer, mi piacerebbe tantissimo che fossero Comme des Garçons, Hussein Chalayan, Martin Margiela, Walter Van Beirendonck… E ho una lista molto, molto lunga di altri stilisti di cui ammiro la creatività e con cui amerei lavorare.»
Che ci dici delle tue esperienze lavorative passate? La migliore?
«L’esperienza migliore è stata indubbiamente lavorare al mio progetto “The breath of darkness” (cioè “Il respiro del buio”, ndr). Ho avuto l’opportunità e il piacere di lavorare, incontrare, sentire e leggere di persone che avevano vissuto esperienze particolarmente dolorose. Sono state fonte di grande ispirazione le poesie scritte da gente che era sopravvissuta a un attacco di cuore, e dai loro gesti nel raccontare quello che avevano vissuto. Sono grata che si siano fidati di me al punto di raccontarmi queste parti della loro vita.»
È davvero tutto molto bello. La peggiore esperienza, invece?
«Non ne ho avute. Per come la vedo io, un lavoro che va male è un’insegnamento: impari dagli errori e fai meglio in futuro.»
I tuoi progetti per il futuro?
«Sto lavorando alla collezione che esporrò al MadeinMedi 2011, e che proporrò anche alla settimana della moda di Milano, il prossimo anno. Vedrò come andrà da quel punto in poi, quindi mi comporterò di conseguenza, giorno per giorno. Ho tantissime cose in testa che mi piacerebbe fare!»