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ABITAVAMO IN UN BOSCO DI QUERCE - di Marilena Guglielmi

Creato il 30 marzo 2012 da Ilibri
ABITAVAMO IN UN BOSCO DI QUERCE - di Marilena Guglielmi ABITAVAMO IN UN BOSCO DI QUERCE - di Marilena Guglielmi

Titolo: Abitavamo in un bosco di querce
Autore: Marilena Guglielmi
Editore: IoScrittore

Credo che non ci sia miglior commento della seguente esclamazione: questo romanzo mi ha davvero emozionato!

Leggendolo, confesso di aver provato un’emozione simile a quella che, da bambino, ho vissuto vedendo “Anna dei Miracoli”, il film del 1962 diretto da Arthur Penn e ispirato alla storia vera della sordo-cieca Helen Keller, con le splendide interpretazioni (da Oscar) delle attrici Anne Bancroft e Patty Duke.

La storia “cantata” da Marilena Guglielmi è coinvolgente e commovente (in senso etimologico, oltre che emotivo): e non soltanto perché alcuni capitoli non sono prosa, ma autentiche poesie. Sono soprattutto i temi – quello della lotta umana, quella dell’accettazione della diversità, in definitiva quello dell’amore – a catturare il lettore, rendendolo partecipe. Prima nel desiderio di individuare quale sia la patologia, ammesso che di patologia si tratti, che affligge il piccolo Giovanni; poi nello schierarsi in questa lotta a fianco di un’intera famiglia: la mamma Maria, il padre Luca, il fratellino Marco.

La narrazione è condotta da quattro prospettive; ogni capitolo termina con il nome del soggetto al quale viene attribuito il racconto, seguito da mese e anno: quasi si trattasse di versetti evangelici, considerato che tre dei quattro familiari hanno il nome di evangelisti.

Le prospettive dei due bambini sono impareggiabili:

“Marco … ha catalogato cinque tipi ben definiti di discussioni: uno, per i soldi. Due, per il disordine in casa. Tre, per i bambini. Quattro, per il passato. Cinque, per il futuro.”

Giovanni “quando la realtà che lo circonda gli sembra insopportabile, ha imparato ad aggrapparsi a un’idea, come fosse un aquilone che vola in alto; a un’immagine che riesce a trasportarlo lontano da tutti, in un posto tranquillo.”

La storia si snoda da due maternità inaspettate. Affrontando innanzitutto il mistero e la scommessa della vita: “Come si fa a volerlo sul serio, un bambino? Senza sapere chi è, come sarà. Come pescare una carta dal mazzo. E’ solo il gioco irresistibile e perverso di madre natura.”

Giovanni, il secondogenito, manifesta fin da subito la sua natura particolare: “Non vuole separarsi da lei, sembra atterrito dalla solitudine …” “… Giovanni ha paura di vestirsi con colori vistosi, perché teme di farsi notare.”

Il piccolo è molto legato al fratellino Marco: “Tu non chiedi mai niente. Non cerchi di rubarmi i giochi …” Tra i due fratelli c’è un rapporto forte, a volte complementare: “Marco parla agli alberi e agli animali, alle pietre e alle nuvole. Giovanni ascolta, visibilmente attento, ma non pronuncia parole, né fonemi”. “Marco e Giovanni comunicano tra loro per mezzo di un linguaggio invisibile agli occhi degli osservatori.”

Giovanni, incapace di esprimersi verbalmente, dimostra un’intelligenza straordinaria. E sembra dotato di un potere soprannaturale: far resuscitare gli esseri viventi, come il pesciolino rosso, come la tartaruga, che sembravano morti.

Poi comincia il vortice dei consulti medici, mentre il rapporto coniugale tra Maria e Luca naufraga. Le ipotesi su Giovanni sono inquietanti: è forse sordo? Oppure autistico? O ha la sindrome di Asperger, quella che ha afflitto anche geni delle arti e della scienza (“Nessuno può essere geniale senza un pizzico d’autismo.”)? Tante sono le ipotesi che vengono formulate: “Autismo. Borderline … Disarmonia evolutiva. Disturbo pervasivo dello sviluppo. Psicotico … Nevrotico, disadattato. Superdotato.”

Intanto Marco si dà carico delle sofferenze familiari e sembra sviluppare un istinto autodistruttivo, che sorprendentemente aiuterà il fratello a sbloccarsi.

Splendida la pagina nella quale Maria s’illude e sogna che, un domani, Giovanni sarà un ragazzo un po’ misantropo,  anticonvenzionale, con un accentuato interesse per la botanica e complessivamente in grado di condurre una vita accettabile.

Marilena Guglielmi, in questo libro, ci regala un’altra “solitudine di un numero primo”. E ci ammonisce a non demordere. E a credere anche nei sogni.



CINQUE DOMANDE A MARILENA GUGLIELMI

Marilena
Hai visto il film “Anna dei Miracoli”? Cosa ne pensi del mio paragone?

Confesso la mia ignoranza, ma ho subito rimediato. Non avevo mai visto “Anna dei miracoli” e mi è sembrata l’occasione buona per farlo. Cosa penso del paragone? Penso che ciò che accomuna le due storie è la similitudine tra le due donne, Anna e Maria, che cercano una soluzione con le sole armi in loro possesso: l’amore, l’inventiva, il coraggio di brancolare nel buio senza paura di picchiare contro gli spigoli, e soprattutto la tenacia, il desiderio di non arrendersi. “In tutto il mondo non c’è nessuno che mi dica come posso raggiungerti!” Questo è il senso di solitudine che provano, di fronte al compito immane che devono portare a termine con le sole forze a loro disposizione. E in entrambi i casi il “miracolo” si compie attraverso l’acqua. Ma il bambino del bosco di querce ha un problema, se proprio vogliamo chiamarlo così, molto più impalpabile e inafferrabile. Lui non urla o strepita;  sta zitto e a spesso ha lo sguardo sfuggente, ma può anche apparire simile a tutti gli altri, e la differenza non salta agli occhi, quando lo vedi giocare sulla giostra con suo fratello, quando ti accorgi che piange un po’ troppo di rado e non fa mai capricci. Forse è soltanto molto chiuso, molto timido? No, non è così. La sua sofferenza è silenziosa e potrebbe anche passare inosservata: questo è il vero pericolo. Penso a tutti quei bambini che hanno una diversità e ne soffrono, perché il mondo in cui viviamo non è fatto per loro. E spesso i genitori e gli insegnanti  non lo sanno o non lo vogliono sapere. Ciascuno incontra in se stesso delle enormi resistenze, prima anche solo di ammettere che suo figlio non è come gli altri.  Un bambino gravemente autistico, se aiutato in tempo, può diventare un caso lieve. Ha bisogno che gli si insegni a comunicare: ciò che per gli altri è facile e istintivo, lui deve e può apprenderlo. Non sarà mai come gli altri, perché è neurologicamente diverso, ma questo non significa che sia malato, o inferiore. Esiste un rovescio della medaglia: lui sarà, a sua volta, capace di cose che gli altri dovranno apprendere con fatica.

E cosa pensi del riferimento alla “Solitudine dei numeri primi”? Ti ci ritrovi?

Nel mio libro i personaggi faticano a comunicare o non ci riescono affatto, i due coniugi si allontanano inesorabilmente l’uno dall’altro proprio quando avrebbero maggiormente bisogno di sostenersi a vicenda. Qualche giorno fa ho letto un commento al mio romanzo, scritto da un anonimo lettore, che mi è piaciuto molto, e di cui cito il titolo: “La normalità non è una categoria umana”. Quanti di noi sono “numeri primi”, destinati a una dura lotta se vogliono uscire, almeno ogni tanto, dalla propria solitudine?

        

Alcuni capitoli del tuo romanzo sono poesie. Altri sono pagine del diario di una madre che, nonostante tutte le difficoltà, non smette mai di lottare per il suo, anzi per i suoi bambini. Quanto ti identifichi in Maria?

Lo spunto del romanzo è autobiografico; tuttavia un romanzo non è un’autobiografia. In particolare non lo è questo romanzo, dove quattro personaggi esprimono il loro punto di vista. Ho dovuto guardarli e studiarli dall’esterno e, nello stesso tempo, imparare a immedesimarmi in ciascuno di loro, per riuscire a dargli una voce. Per cui, sì, mi identifico facilmente in Maria, ma anche negli altri tre. Ai tempi in cui i miei figli erano bambini si sapeva poco della Sindrome di Asperger. Ora si sa molto di più: ad esempio, che è ereditaria. E non posso fare a meno di riconoscermi, bambina, in molte caratteristiche di Giovanni. La grande differenza sta nel fatto che io parlavo troppo.  Non per questo ero capace di comunicare.

Ho trovato entusiasmante la parte in cui Maria escogita sistemi e giochi per stimolare i progressi di Giovanni. Che esperienza hai in questo ambito?

La parte dei giochi è forse è una delle più fedeli alla realtà che ho vissuto io. Come si legge nella storia, avevo incontrato uno psichiatra secondo cui ero l’unica persona al mondo che poteva aiutare mio figlio. E’ stato anche il primo a dirmi, in anticipo sui tempi, che l’autismo non è necessariamente una malattia. Ho seguito il suo consiglio e non me ne sono mai pentita: ho fatto appello alla mia immaginazione, alla creatività, e all’istinto. Benedico i progressi della scienza e della psicologia, e sono felice che si sappia sempre di più sulla neurodiversità. Ma spesso l’istinto di una madre è insostituibile. L’ideale è quando scienza e amore lavorano fianco a fianco, per uno stesso fine.

Marco è “di acqua”, Giovanni “d’aria”, Luca, il marito, “di terra”. E Maria? E Marilena? Qual è il loro elemento? Forse il fuoco?

Sono la terza di quattro figli; mia madre ha usato per prima la similitudine dei quattro elementi, in una poesia che scrisse quando eravamo bambini, nel tentativo di raccontare le nostre particolarità. Secondo lei io ero il fuoco. Mi credi, se ti dico che non le avevo mai domandato il perché?  Eppure mi sarebbe piaciuto saperlo anche prima. Gliel’ho chiesto oggi, dopo tanti anni. Mi ha risposto: “Tu assomigli al fuoco perché sei ribelle, imprevedibile e incontrollabile. Ma sei anche una persona passionale, che sprigiona calore umano.”

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