Uno dei sintomi più evidenti della dipendenza cronica da musica è il totale rifiuto di restare ancorati al passato e la continua pulsione a cercare nuovi stimoli, se possibile, capaci di ampliare la percezione del suono e delle sue potenzialità. Da ciò deriva una caccia compulsiva a realtà (poco importa quanto famose o alla moda) in grado di soddisfare questa vera e propria fame, qualità che non si può forzare ma si avverte solo una volta scattata la famosa “molla” e avvertito il famoso “clic”. Quando, poi, ci si imbatte in musicisti spinti da similare passione, è inevitabile che arrivi forte anche la voglia di condividerne la conoscenza con i propri amici e le persone ritenute affini, una reale esigenza che oggi trova nella rete una cassa di risonanza un tempo inimmaginabile, nonostante ci sia il rischio di restare inascoltati, data la mole di materiale che vi galleggia più o meno meritatamente… un po’ come provare a farsi sentire dentro uno stadio durante il derby. Questa situazione fotografa fedelmente l’incontro con gli Abstracter, band di stanza a Oakland in cui milita l’italiano Mattia Alagna, già in azione con gli (A)Toll e oggi trasferitosi negli States. Che gli Abstracter rientrino nella categoria dei musicisti mossi da passione a dispetto di tutto e tutti è dimostrato dalla capacità di tirar fuori un piccolo mostro in note davvero difficilmente etichettabile, per di più registrato praticamente live eppure dotato di un suono a dir poco impressionante. La riprova sta anche nella decisione di accettare la sfida lanciata da Josh Garcia, curioso di cimentarsi in una registrazione vecchia maniera su nastro, pur senza la garanzia di un risultato finale all’altezza delle aspettative: quante band avrebbero accettato, così da mettere a repentaglio il budget a propria disposizione, se non realmente motivate dalla voglia di andare oltre e non giocare sul sicuro? Questi elementi sarebbero già di per sé sufficienti a solidarizzare con gli Abstracter, ma son ben poca cosa se paragonati al risultato finale, tre lunghi brani intrisi di riferimenti sludge, doom, crust, noise, black metal, psichedelia, shoegaze e chi più ne ha, più ne metta, eppure al contempo personali e di difficile catalogazione. Tomb Of Feathers è un lavoro avvolgente e ricco di intuizioni, in grado di invischiare l’ascoltatore all’interno di una trama tanto ricca quanto curata fin nei minimi dettagli, una presentazione di assoluto valore per chi sappia apprezzare la nuova ondata di suoni transgender che sempre più spinge per scalzare l’immobilismo di certa scena metal. A differenza di altre realtà con motivazioni simili, la formazione di Oakland mostra una determinazione fuori dall’ordinario, la classica marcia in più che dovrebbe far scattare i sensori e innescare il processo di cui si diceva in apertura, soprattutto per la naturalezza con cui riesce ad alternare stati d’animo e intensità senza mai perdere in organicità o coesione. Capita così di ritrovare affinità con formazioni a sé quali Starkweather, Enslaved, Eyehategod, Voivod e Amebix, senza che ciò stupisca più di tanto o appaia forzato. Se questo è il punto di partenza, non resta che attendere gli sviluppi futuri.
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