Locandina del film
A.C.A.B. – All Cops Are Bastards, di Stefano Sollima, Italia, 2012, 112 minuti.
“Celerino, figlio di puttana!”. Il motivetto tanto orecchiabile è la vera colonna sonora del film, anche quando si sentono i White Stripes o i Joy Division, perché è quello che rimane nella testa dello spettatore anche quando c’è solo il rumore degli scontri, che lo accompagna in ogni scena per tutta la proiezione. Accusato prima della sua uscita (sic!) di essere un film schierato, viziato dal tentativo di difendere il reparto mobile della polizia, in realtà A.C.A.B. ne è forse il primo accusatore. Infatti – più che far vedere il lavoro della “celere” – il regista vuole mettere in scena come gli uomini della “celere” vedono (ed interpretano) il proprio lavoro. Cobra, Negro, Mazinga e Adriano da una parte, ultras, rumeni e manifestanti (i pastori sardi in questo caso) dall’altra, in un susseguirsi di eventi del recentissimo passato. E via con le sequenze, con i pastori bloccati (e manganellati) a Civitavecchia durante la protesta contro una classe politica miope ed incapace di dar loro risposte. Gli ordini sono di bloccarli lì. Tum, tum, tum. La manifestazione è bloccata, si torna in caserma. Gli sgomberi invece (del CIE, delle case popolari occupate abusivamente) si svolgono senza incidenti, ma queste – purtroppo – sono rarità.
A questo punto iniziano ad emergere le personalità dei quattro protagonisti: Mazinga è il più anziano dei quattro, il mentore del minuscolo gruppo, quello che li ha educati a cosa è (per lui) la “celere”, ma che rimane sempre in secondo piano, come il maestro che lascia esporre l’allievo; Cobra è il suo erede, la personalità più forte del gruppo, nostalgico del duce e del ventennio; Negro, il padre separato, che non riesce a tenere i suoi problemi fuori dalla caserma, e infine, Adriano, la nuova recluta, da forgiare a immagine e somiglianza degli altri. La legge, la certezza del diritto, per loro sono solo un inutile orpello. «La polizia sono io» è la frase che riassume questo pensiero – questa visione distorta del mestiere del poliziotto – che trova il suo contraltare negli ultras e nei neofascisti (le teste rasate), in un circolo vizioso in cui violenza chiama violenza, alzando sempre di più il livello dello scontro. E forse è proprio la violenza il filo conduttore di A.C.A.B., dalla rievocazione della “Diaz” a Genova («Una macelleria messicana, la più grande cazzata che avessimo mai potuto fare») al processo contro Cobra per lesioni aggravate – di cui si vedono dei piccoli stralci lungo tutta la seconda metà del film – che alla fine lo vedrà assolto grazie alla testimonianza di Negro e Mazinga, i suoi “fratelli”, gli unici su cui possa contare e che mai farebbero gli “infami” dicendo la verità ai giudici. Negare sempre, negare tutto, aggiustare le versioni dei fatti. In questa realtà si trova catapultato Adriano, la recluta, dal suo “rito di iniziazione” – degno erede del nonnismo imperante nell’esercito fino a pochi anni fa – fino alla punizione sommaria inflitta dal piccolo gruppo (fuori servizio) ad alcune “teste rasate”, colpevoli di aver accoltellato Mazinga allo stadio durante uno scontro. Adriano si vuole sottrarre a tutto questo, e perciò denuncerà il furioso pestaggio dei neofascisti, cosa che gli costerà il marchio d’infamia all’interno del reparto mobile, sempre più simile – nella sua omertà – ad un clan della criminalità organizzata.
Sullo sfondo intanto sfilano il delitto Reggiani, le elezioni per il sindaco di Roma (che la destra vincerà con i famosi slogan sulla sicurezza e sul “padroni a casa nostra”), l’omicidio del tifoso Gabriele Sandri e tutta la violenza di una società in cui sono calati i protagonisti, ma che non li vuole (e non li può) giustificare in alcun modo. Il regista non nasconde neanche le continuità della polizia attuale con la passata polizia fascista, che manda in strada uomini malpagati e pessimamente addestrati, senza anticorpi che permettano loro di contrastare le possibili derive autoritarie, che devono agire con efficacia e velocità, anche a discapito dei diritti e della democrazia. Tutto questo crea in loro un profondo senso di confusione e di abbandono da parte dello stato (esemplare la scena di Negro che urla davanti al parlamento), che trova sfogo solo nel manganello. Tum, tum, tum.
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