Il settore giovanile è una finestra sul futuro. E da quello che si è visto ai recenti Europei Under 18 di Madrid, il domani appare inquietante. Altro che “sistema franchigie” che scricchiola: è l’interapiramide del rugby italiano che rischia grosso.
Nell’esordio contro il Galles gli azzurrini allenati da Chini e Troiani sono stati travolti
41-8 dal Galles, quarta forza della manifestazione, per essere poi addirittura battuti
dalla Georgia e relegati a lottare per il settimo posto con il modesto Portogallo
(sconfitto 41-14). Un brusco ridimensionamento dopo il successo di febbraio sull’Irlanda.
Ma bisogna tener conto che la nazionale più forte del Trifoglio è quella scolastica e non la selezione dei club affrontata a Badia. E che per trovare negli annali un altro successo dei nostri ragazzi contro uno dei primi 12 paesi al mondo bisogna risalire all’aprile del 2006 (contro la Scozia A Treviso).
Certo la vittoria, a livello giovanile, non deve essere un dogma. Conta di più la crescita
dei giocatori. Ma la sconfitta sistematica è di sicuro il segnale di un’anomalia. Che
fare? Prima di tutto tornare a lavorare sulla base del movimento: più è larga, più il
vertice della piramide può arrivare in alto. E non solo per aumentare le probabilità
di scoprire talenti. C’è bisogno come il pane di tante altre figure: arbitri (fondamentali
per il gioco), educatori, dirigenti. Non vorrei che qualcuno scambiasse gli ottantamila
dell’Olimpico o del Meazza per praticanti.
Secondo: bisogna eliminare al più presto a livello di campionati l’enorme e pericoloso
sbalzo tra Under 16 e Under 20. Tre classi d’età raggruppate in una sola categoria
per avere i numeri sufficienti a garantire squadre e campionati a fronte di un calo di praticanti juniores, rischia di bruciare la generazione dei più giovani: troppo il divario fisico e di esperienza. Vero che nelle regioni leader si trovano i correttivi, ma se la palla
ovale vuole davvero uscire dalla dimensione regionale deve cominciare a ragionare
su altri numeri.
La soluzione del primo problema è naturalmente propedeutica al secondo. Ma c’è
dell’altro. Le Accademie zonali dovrebbero integrarsi maggiormente col territorio e
i club, offrire formazione di alto livello, non posti “garantiti” o contratti da professionisti.
Quelli bisogna meritarseli sul campo. E se la maglia azzurra è un valore, tutti i giocatori devono avere le stesse opportunità di indossarla. Anche chi è fuori dall’Accademia. Una sana competizione per la nazionale può aiutare la crescita. L’impressione è che non sia
così. In caso contrario, basterà far parlare chiaramente i fatti. Gioverà a tutti.
Infine la formazione. Credo che la Fir abbia il dovere di importare i migliori saperi tecnici oggi disponibili in Europa, gente specializzata nei settori giovanili. E non tanto per ovviare a lacune degli allenatori italiani (ce ne sono di bravi), anche se i limiti nei fondamentali ai Mondiali Under 20 li hanno visti tutti. Ma perché, almeno periodicamente, gli stimoli e il confronto fanno bene. E aiutano a tenersi alla larga dalla tentazione dell’autoreferenzialità.
Accademie, movimento, professionismo vero: i mali dell’Italrugby
Creato il 23 aprile 2012 da Ilgrillotalpa @IlGrillotalpaPossono interessarti anche questi articoli :
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