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Accanto al dolore

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Domenica 4 novembre 2012

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (1): Accanto al dolore

Ecco cosa noi siamo: una comunità di cura e di destino. L’idea mi è venuta in questi giorni dalla lettura dell’ultima opera di Eugenio Borgna – Di armonia risuona e di follia – e dal video di presentazione apparso sul canale di Feltrinelli.

Potrebbe sembrare inappropriato definire un Centro di ascolto ‘comunità di cura’, ma solo se ci fermiamo al significato medico-sanitario della cura. La ‘terapia’ delle tossicodipendenze, infatti, non è solo terapia farmacologica. Trattandosi di una sindrome bio-psico-sociale, solo un approccio multimodale e a rete garantisce il successo della ‘terapia’: è indispensabile, accanto allo sguardo clinico dei Medici e degli Psicoterapeuti, la presenza e il raccordo sistematico con gli interventi degli Assistenti sociali e degli Educatori. La rete attivata, come comunità di cura, comprende gli Educatori: noi siamo parte di una comunità di cura. 

Le reti solidali, le reti tematiche, le reti sociali che si costruiscono di volta in volta intorno alla persona che chiede aiuto non lasciano irrelate le diverse professionalità, giacché esse non si ritrovano ad agire in ‘assoluta’ autonomia, cioè sciolte da ogni legame con le altre professionalità. Correttamente collocata la persona dell’utente al centro dell’azione congiunta, ciò che vive non è forse una piccola comunità di cura appositamente creata per quella persona? Dunque, noi Educatori, se sollecitiamo ogni volta di nuovo la creazione della rete sociale, saremo parte essenziale di una comunità di cura.

La collaborazione ventennale con il SER.T. della mia città mi permette di dire che ad ogni nuovo utente inviato dalla struttura pubblica rispondiamo attivando, dopo i primi contatti, la rete necessaria. Il lavoro di raccordo e il successivo orientamento verso le scelte ulteriori viene curato da una parte e dall’altra, con fiducia reciproca. Dalla parte del Centro di ascolto, nel colloquio di motivazione, in quanto Educatori, miriamo a costruire relazioni stabili con la persona che chiede aiuto, mostrando interesse per l’esistenza personale, a partire da tutte le vicissitudini della coscienza. La relazione d’aiuto ci vede implicati come figure di riferimento – perché nel tempo tali diventiamo per i ragazzi –  impegnate a ‘restituire’ ai genitori del ragazzo la naturale funzione di figure di riferimento per lui.
La ‘ricostruzione del paesaggio affettivo’ nella coscienza del ragazzo richiede anni di lavoro, che si svolge nella maggior parte dei casi altrove, in Comunità educative con le quali noi collaboriamo.
L’orientamento costante verso mete che trascendono la condizione attuale del ragazzo è possibile solo se il lavoro di motivazione al cambiamento vede coinvolti i genitori 
in un lavoro parallelo, che li veda impegnati a comprendere le ‘ragioni’ del figlio: solo un cammino di crescita personale li renderà di nuovo credibili agli occhi del figlio. La trasformazione dei genitori incoraggia il figlio a cambiare, a chiedersi cosa egli debba fare per cambiare.
Gli Educatori non sono solo ‘tecnici’ o neutri testimoni del cambiamento. E’ importante che si senta una presenza che, a sua volta, sia espressione di cambiamento. Pur nella distanza necessaria che contraddistingue il rapporto con tutti gli utenti e con le loro famiglie, l’Educatore non adotterà mai atteggiamenti impersonali; non curerà un distacco che raggelerebbe la relazione; non sarà mai indifferente ai vissuti e agli accadimenti di cui sarà testimone attivo. Essere ‘accanto al dolore’ dell’altro è il ‘contrario’ del distacco, dell’impersonalità, dell’indifferenza.
Il gruppo di auto-aiuto delle famiglie, che vive negli incontri del mercoledì per tutto l’anno, è parte della comunità di cura che noi siamo.

Ci trasformiamo tutti in ‘comunità di destino’, se assumiamo la nostra comune condizione di mortali per farne la ragione di ciò che ci unisce, per un tempo anche lungo della nostra vita, in cui ognuno di noi avvertirà la presenza dell’altro nella propria coscienza e si sentirà modificato da quella presenza.

Eugenio Borgna, riferendosi alla sua esperienza terapeutica, si esprime così:

La comunità di destino non si forma se non nella misura in cui si entra in sintonia con la frequenza d’onda del cuore di chi sta male: un cuore pascaliano, un cuore della intuizione, il mio cuore e il cuore dell’altro, un cuore che, trasformando noi stessi, ci aiuta a trasformare gli altri, un cuore che riapre, e incrina, la solitudine creata dal dolore. Un cuore sensibile a un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, o ad una lacrima che cambia la nostra anima. [...]
Solo costruendo inedite, impensate, inimmaginate e inimmaginabili comunità di destino, ci è possibile avanzare nella conoscenza dell’anima, dell’anima che grida nel silenzio, e creare associazioni, e legami invisibili, fra il mio cuore e il cuore dell’altro: di chi è lacerato dal dolore, e dall’agonia della speranza.
Ma non nasce comunità di destino se, nel cuore di chi ne partecipa, non ci sia la presaga intuizione delle grandi speranze che ci sono nel cuore degli uomini.
Ci sono infiniti modi di creare comunità di destino ma anche infiniti modi di inaridirle, e di spegnerle, se non c’è in noi la agostiniana passione dell’interiorità: come, e non solo in psichiatria, avveniva, e crudelmente continua ad avvenire.
Ma ogni comunità è sospesa fra abisso e destino, fra salvezza e pericolo, fra speranza e disperazione, fra comunione e solitudine, ed è immensamente fragile: esposta ai venti dell’indifferenza e della noncuranza, dell’impazienza e della leopardiana follia della ragione.
Ogni comunità di cura è alla ricerca del destino che le dia una dimensione ancora più profonda, ancora più aperta alle intermittenze del cuore, e che conduca le anime ferite dal dolore alla soglia dell’attesa e della speranza.

In ogni comunità di cura, ma ancora di più in ogni comunità di destino, rinascono improvvisi orizzonti conoscitivi che, immersi nelle ragioni profonde del cuore, ci avvicinano alla ricerca di senso nel dolore e nella malattia: nella follia.
Ma ogni comunità di destino è influenzata, e ferita, da dolori, cadute, silenzi, speranze infrante, tristezze, delusioni, e si incrina allora il legame invisibile e indicibile che le sta a fondamento.
Certo, una comunità di destino nasce dall’incontro di due soggettività, di due interiorità, di comuni storie personali, che si intrecciano l’una all’altra: senza confondersi.

Il destino originario dell’essere umano è quello di vivere insieme agli altri. Noi siamo gettati nel mondo, e solo se nasce un’alleanza, una comunicazione, uno scambio di esperienze, fra noi e gli altri da noi, riscopriamo quello che noi siamo, e quello che sono gli altri, nella nostra e nella loro dimensione interiore. Questo mettere le cose in comune ci trasforma. Certo, se non insistiamo nel lavoro che, ogni giorno, dovremmo fare su noi stessi, mettendo in discussione ogni nostra pretesa certezza, nulla conosceremmo non solo di noi, ma nemmeno degli altri: nulla di ciò che ci distingue, e nulla di ciò che ci accomuna.
Non si entra in una comunità di destino, o almeno non si accoglie un altro in una comunità di destino, se non si ha pazienza, se non si ha desiderio, se non si ha speranza, e se non si ha la forza di sfuggire al richiamo istantaneo dei nostri sensi, dei nostri occhi, della nostra volontà”.

Si tratta di verificare ora fino a che punto sia possibile ‘utilizzare’ la nozione di comunità di destino nel lavoro educativo. L’analogia che io tendo a istituire tra un lavoro e l’altro può essere rintracciata nell’espressione ‘accanto al dolore’, che apparenta, in una certa misura, il nostro lavoro a quello psichiatrico di Borgna.

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